Sentivo addosso il peso delle aspettative della mia famiglia e non mi credevo all'altezza... Non reggevo al dolore, all'ansia, alla paura di non farcela.
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Fin da piccolo i miei genitori nutrivano, nei miei confronti, grandi aspettative.
Effettivamente, mostravo doti creative e intellettive di un certo spessore in tutto ciò che facevo: ero molto bravo a scuola, a disegnare, a mixare musica (a 8 anni mi dilettavo a fare da dj alle feste).
Mio padre si aspettava tanto da me.
Il rapporto con i miei genitori è sempre stato buono, ma mio padre mi incuteva timore con la sua rigidità e le ambizioni che proiettava su di me: avrebbe voluto che diventassi ingegnere e che facessi grandi cose.
Non era molto affettuoso nei miei confronti, e a me questo mancava.
Così già al liceo ho cominciato a fumare hashish e a fare uso di alcolici.
Non stavo bene, sentivo addosso il peso delle aspettative della mia famiglia e non mi credevo all'altezza.
Però non ho mai avuto il coraggio di dirlo a mio padre, di esprimergli il mio disagio.
Il suo sguardo rigido e freddo mi spaventava ogni volta che ci provavo.
Dopo il liceo mi sono trasferito a Torino, in un appartamento condiviso con altre persone, e mi sono iscritto all'università, facoltà di ingegneria come voleva mio padre.
Ho frequentato l'università per due anni, anni in cui ho cominciato a bere in maniera problematica. Bevevo perché mi rendevo conto di non riuscire ad essere all'altezza degli studi di ingegneria e più me ne rendevo conto, più bevevo.
Sentivo addosso tutto il peso della delusione che stavo arrecando ai miei, ma soprattutto a mio padre, un peso che mi schiacciava sempre di più.
Dopo aver lasciato l'università, avendo conseguito il titolo di geometra ho cominciato a lavorare al fianco di mio padre, che dirigeva cantieri edilizi.
Ero molto contento di lavorare con lui, perché lo vedevo orgoglioso del mio operato, ma al tempo stesso ero sempre teso, temendo che da un momento all'altro potessi deluderlo.
Nel 2012 mio padre è venuto a mancare e da lì ha avuto inizio il mio totale crollo psico-fisico.
Mi era venuta a mancare la mia motivazione a fare le cose, a fare il mio lavoro; per non parlare della responsabilità che mi aveva lasciato nel dover gestire i cantieri edilizi al posto suo.
Non reggevo al dolore, all'ansia, alla paura di non farcela.
Ho subìto svariati ricoveri in cliniche e comunità per disintossicarmi da oppiacei e alcool, ma tornato a casa ricominciavo sempre tutto da capo. Fino ad arrivare all'abuso di psicofarmaci, assumendo anche 13-14 compresse di Xanax al giorno.
Fortunatamente mia madre e mio fratello non mi hanno mai voltato le spalle, sono sempre stati al mio fianco a combattere questa battaglia contro la mia fragilità.
Così, a maggio 2013 sono arrivato al CUFRAD.
Ci ho messo un bel po' di tempo a capire quale strada imboccare e come fare per riprendere in mano le redini della mia vita.
Oggi, però, posso dire di star bene, di aver preso la strada giusta che mi può portare ad un benessere ritrovato, con me stesso e con la mia famiglia.
Finalmente ho il gusto di fare le cose anche più banali, come lavare la stanza o sistemare il letto; ho ritrovato il piacere di stare con le altre persone, di ridere e scherzare, ma anche di aprirmi e parlare di me quando ne sento il bisogno.
Ciò che ancora mi perseguita è il rimpianto per aver deluso la mia famiglia, in particolar modo mio padre. La sua figura ce l'ho ben presente quando prendo delle decisioni o eseguo dei compiti. Mi domando sempre cosa mi direbbe, cosa farebbe lui.
Devo imparare a perdonarmi, ma forse anche a perdonare lui, perché una parte di me lo accusa ancora di aver provocato tutto questo.
A volte mi chiedo cosa avrei fatto se non avessi sentito addosso il peso delle sue aspettative.