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"La mia vita da imprenditore della coca a Milano"

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“La mia vita da imprenditore della coca a Milano”

Bisogna partire dall’alimentazione del pitone reale per raccontare la vita dei pusher milanesi, quelli che spesso non rispondono al crimine organizzato, ma che macinano contanti nel nome e nel mito di Tony Montana, il boss per eccellenza nella cinematografia anni ’80, l’Al Pacino di Scarface. Il serpente che stringe il collo alle sue vittime prima di divorarle, può rimanere senza cibo anche per due mesi, senza il rischio di morire.
«È l’animale da compagnia perfetto, perché puoi lasciarlo in casa nella teca e startene via per settimane senza preoccupazioni. Basta lasciargli qualche topo prima della partenza», racconta Carlo, nome di fantasia, poco meno di trent’anni, disposto a raccontare dopo mille precauzioni un’esistenza trascorsa a spacciare a Milano, ma vivendo spesso all’estero, per cercare nuovi traffici o rimanere lontano dall’Italia. Chi maneggia hashish e marijuana dura di più nel capoluogo lombardo. In tutti i sensi. «Perché gli sbirri cercano i giri grossi, quelli della bamba, dove si fanno più soldi ma si rischia di farsi del male. Molto male. E lì ci sono la camorra e la ndrangheta a rompere le palle».

In corso Como è una sera come tante, alla fine dell’estate. L’omicidio di Massimiliano Spelta e di sua moglie Miriam in via Muratori a Porta Romana è sulle pagine dei quotidiani da giorni. Nei bar e nei locali ne parlano tutti. Del resto, Milano è Coca City, come la soprannominò per primo il settimanale Sette, la Capitale del consumo di bamba in Europa. Anche Spelta, a cui hanno trovato 50 grammi di polvere bianca purissima, faceva parte di un giro d’affari mostruoso, forse nemmeno quantificabile.
Basti pensare che in Italia le ultime statistiche del 2011, ricerca Istat e Università di Roma, raccontavano di circa 27 miliardi di euro all'anno, con più di 3500 spacciatori in giro. Era l’anno scorso. Dopo la crisi economica e la chiusura di tante aziende, si moltiplicano i casi di spacciatori improvvisati dell’ultima ora, che si buttano sul mercato per fare un po’ di soldi: finiscono spesso beccati dalla polizia durante gli spostamenti di sostanze oppure, quando va male, sul marciapiede con un proiettile in testa.
A discutere di Spelta, ai tavolini della movida milanese, è spesso proprio questa classe imprenditoriale e criminale silenziosa, quella di chi muove grandi quantitativi di sostanze stupefacenti in città. Non sono, per intenderci, quelli che consegnano «un tocco di fumo» o «una busta di coca» nelle mani dei tossici. Certo, a volte capita. Ma sono quelli che spostano «i chili» in grosse valige nere, una sorta di secondo anello della produzione: prendono dai grandi produttori all’estero e vendono nelle città ad altri stoccatori che poi la girano a ragazzi magari più giovani per spacciarla in strada, dopo che è stata tagliata chissà quante volte.

«Ce ne sono tanti in giro. Molti hanno iniziato da ragazzini a scuola. Magari andavano a prendere la maria a Lugano e scendevano in treno: giravano ai compagni qualche canna. Hanno capito come funziona e si sono fatti scalti. Hanno visto che si facevano un sacco di soldi e sono rimasti nel giro. C’è chi è caduto subito e si è fatto fregare. Chi ha iniziato a farsene troppa ed è rimasto fottuto. Chi spende tutto nella bella vita e finisce con il naso che ti cade. Chi se ne va via di testa. Chi ha fatto uno sgarro, non ha pagato e ci è rimasto secco. Tanti vengono agganciati dalla criminalità organizzata, ma lì bisogna stare attenti, meglio starsene alla larga e provare a lavorare in proprio».
Ma in questo sottobosco noir di mondo milanese ci sono pure quelli che con questo mestiere vivono e anche bene. Hanno aperto una gelateria oppure un negozio, un ristorante. «C’è chi ce la fa» ricorda Carlo «ma deve prendere le dovute precauzioni e con angosce di ogni tipo. Pochi amici, niente fidanzate. L’importante è mantenere l’anonimato, cambiare più cellulari possibile in un mese e che l’ultimo della filiera, soprattutto il ragazzino coglione del centro che viene regolarmente pizzicato dai rosbi (sbirri ndr) non faccia mai il tuo nome», spiega ancora il nostro interlocutore. «Odio i ragazzini del centro che si pippano pure il calcestruzzo, ma restano dei clienti», chiosa m4entre fa girare il ghiaccio meccanicamente dentro allo sbagliato.
«Le dovute precauzioni» non sono altro che una vita senza via di mezzo, tra paradiso e inferno. Chiamate a ripetizione dagli acquirenti. («Ci sono pendolari che partono da Roma per andare in Germania e deviano apposta a Miano per chiamarmi»). La polizia alle calcagne. («Finisce che la sogni tutte le notti»). Paranoie di tutti i tipi. Apparecchi tecnologici per togliere il segnale al cellulare quando si parla con qualcuno.
Nessun conto in banca, al massimo una carta di credito ricaricabile alle Poste. Bensì una cassetta di sicurezza in Svizzera dove mettere i soldi, che serviranno magari per la pensione, ma «soprattutto per l’avvocato nel caso debba servire». Quindi pure due case, una dove vivere e l’altra dove tenere la «roba». «Meglio andare in affitto da gente che non ti chiede manco il nome, li ricopri di soldi e loro non ti scassano», spiega l’intervistato.
Poi almeno tre macchine. Una di grossa cilindrata, da mettere a disposizione per gli spostamenti all’estero a chi ha la voglia di «sbattersi» in viaggi con carichi di droga nel bagagliaio, ma ben retribuiti. Un’altra per circolare e un’altra ancora per fare altri spostamenti, dando il più possibile meno nell’occhio.
Quindi c'è il lato positivo. Ci sono i viaggi intorno al mondo, lontano da rischi di essere beccati. C’è chi ha talmente soldi da comprare appartamenti un po’ ovunque e starsene via per mesi. Caraibi, Thailandia, Africa, Sud America fa lo stesso. Basta starsene in giro. Diversi pusher tornano solo qualche settimana nel loro paese, per incassare i proventi del mestiere dai debitori o fare due movimenti. «Un giorno mi fermerò, magari apro un bar, per adesso va così. Ho provato a studiare all'Università, ma non è andata. Guadagno e vivo bene. Ora meglio che vada, voglio partire al massimo tra tre giorni e devo ancora incassare 10 mila euro, in giro ne ho sparsi più di 50 mila», ripete Carlo.
Prima un’ultima domanda. Nessun senso di colpa a vendere veleno e morte? «Rispondo alla richiesta della città. Faccio l'imprenditore. Al milanese piace la bella vita, pensano che qualche colpo a settimana non faccia male e continuano a spendere. In questa città pippano tutti, ma questo lo sanno anche i muri, quindi non c’è nemmeno da ripeterlo».
E Spelta invece? Una vita senza sgarrare, stando attenti a non essere troppo appariscenti, senza matrimoni, senza una figlia da mantenere, non è da tutti, forse è troppo difficile da portare avanti. Le ultime notizie spiegano che ci sarebbe una partita di droga non pagata alla base del duplice omicidio, con una bimba di due anni rimasta senza genitori. Basta digitare su Google le due parole «droga» e «Milano» per avere centinaia di casi di arresti, retate, sequestri e poi omicidi in città. A giugno ce n’è stata pure una nella sede Mediaset di retata della polizia.
A Malpensa è ormai la norma. L’11 settembre i finanzieri hanno beccato due giovani italiani, di circa trentanni, e una donna di mezza età di origine uruguaiana, tutti in arrivo dal Sud America. «Nulla da dichiarare» sono state le uniche parole dei tre prima del controllo. Nei bagagli «accuratamente occultati» avevano più di 12 chili di cocaina. In una casa del milanese, forse, un pitone sta ancora aspettando la sua dose di topi da strangolare.

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)