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Aggressività e rabbia: tra risposte genetiche e teorie psicologiche

Aggressività e rabbia: tra risposte genetiche e teorie psicologiche

 

Aggressività e rabbia: tra risposte genetiche e teorie psicologiche

 

di M. G. Fiore e G. Oldrini

 

*Laboratorio di Antropologia - Dip. di Biologia Evoluzionistica - Università di Firenze

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Secondo uno studio della Florida State University

(Usa), la nostra la capacità di saper resistere

alle provocazioni o, al contrario, di scatenare

tutta la nostra rabbia, è strettamente legata all'attività,

 

del gene Maoa (monoamina ossidasi A), chiamato

anche ‘warrior gene’. Se questo gene ha un'attività

di produzione enzimatica regolare, cosa che avviene

nella maggior parte delle persone, allora siamo

abbastanza in grado di controllare i nostri

nervi, altrimenti, addio self control!

 

 

Furto, aggressione sessuale, omicidio, cosa spinge l’uomo a far questo? Negli ultimi anni le indagini poliziesche e le moderne tecniche utilizzate nei laboratori di Dna antico hanno apportato nuovi strumenti cognitivi e di ricerca.

 

Viene però trascurata l’evoluzione umana, e cioè le differenze della massa cerebrale non solo da un punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Arrivare a chiarire quale sia il peso dei fattori ambientali e biologici in un comportamento violento, aiuterebbe a limitare le conseguenze individuali e sociali dell’aggressività. Nell’ambito della specie umana l’aggressività consiste nell’espressione socialmente inadeguata dell’emozione, contrassegnata dall’intenzione di dominare o di controllare le azioni di un altro individuo tramite un assalto verbale o un’aggressione fisica.

 

Vi sono aspetti positivi dell’aggressività che non consigliano la sua totale eliminazione, ma piuttosto una gestione non violenta di essa.

 

Mentre, l’aggressività intesa come sinonimo di violenza di gruppo o di guerra costituisce un fenomeno tutto umano, la cui origine va ricercata nella natura gregaria degli individui della nostra specie.

 

I comportamenti aggressivi e antisociali, come il crimine e la violenza dunque, sono influenzati da fattori genetici (ereditari) ed ambientali che interagiscono fra di loro.

 

I fattori ambientali rientrano in una più larga famiglia di fattori, che comprendono il contesto sociale (famiglia di appartenenza e l’educazione ricevuta, i vari gruppi amicali nei quali un individuo si inserisce), la scuola e con essa lo sviluppo cognitivo. E’ molto probabile che esista un “marker genetico” per il comportamento aggressivo antisociale: il Dna non codifica i comportamenti aggressivi, bensì proteine ed enzimi che formano ed influenzano quei sistemi neurobiologici che a loro volta influenzano i fenotipi comportamentali complessi.

 

I geni che controllano l’attività serotoninergica rappresentano, pertanto, ideali geni “candidati” per i comportamenti aggressivi ed impulsivi che sottendono le condotte autolesive. Infatti, mutazioni in questi geni potrebbero concorrere a determinare le alterazioni dell’attività serotoninergica osservate nei soggetti con comportamento impulsivo/aggressivo e suicidario.

 

Negli ultimi anni sono stati studiati vari polimorfismi genici, in particolare quelli presenti nel gene della triptofano idrossilasi (Tph), l’enzima limitante nella sintesi della serotonina, e nel gene del trasportatore della serotonina (5-4 Htt), responsabile della ricaptazione del neurotrasmettitore nel bottone sinaptico e, pertanto, della cessazione della sua attività nel vallo sinaptico. Due recenti analisi indicano che, mentre il gene della Tph non sarebbe coinvolto nell’eziopatogenesi delle condotte suicidarie, il gene del 5-Htt potrebbe, invece, avere un ruolo importante. Va sottolineato che nella maggior parte degli studi di associazione genetica sul suicidio il fenotipo clinico utilizzato era esclusivamente il comportamento suicidario.

 

Gli studi condotti dal ricercatore Siever, hanno recentemente dimostrato un’associazione fra polimorfismi del Tph e impulsività/aggressività in pazienti con disturbi di personalità.

 

Ulteriori hanno indicato la presenza di associazione genetica fra un polimorfismo del gene del 5-Htt e misure di aggressività e di dimensioni temperamentali in soggetti con comportamento suicidario. I maschi con una particolare variante del gene Maoa (monoamina ossidasi A), chiamato anche “warrior gene”, siano più inclini non solo a entrare nelle bande di strada, ma anche a diventarne i componenti più violenti. Aggressivi e privi di scrupoli anche di fronte all'uso delle armi.

 

Lo rivela uno studio condotto dalla Florida State University (Usa), che per la prima volta conferma, numeri alla mano, un legame specifico tra il gene del guerriero, gang e pistole. Un collegamento che però vale solo nel caso dei maschi. Secondo i ricercatori diretti dal criminologo Kevin Beaver del College of Criminology dell’Ateneo della Florida, infatti, le ragazze con la stessa variante nel Dna sembrano resistere al fascino della violenza e delle armi, che invece travolge i coetanei maschi. Se le bande sono state spesso viste come un fenomeno sociologico, la variante di uno specifico gene gioca un ruolo altrettanto significativo nella formazione di questi gruppi violenti. Precedenti lavori avevano collegato alterazioni del warrior gene a bassa attività con una serie di comportamenti anti-sociali. Beaver, conferma attraverso i suoi studi, come queste varianti genetiche possono essere spia dell’aggregazione a una banda. Questa caratteristica genetica permette, all’interno di una gang, di capire quali membri saranno più inclini a comportamenti violenti e all’uso delle armi.

 

L’aggressività si configura come un comportamento dalle mille sfaccettature e non deve essere però considerata come il prodotto di un singolo sistema isolato del cervello.

 

Vi sono diversi tipi di aggressività: predatoria, indotta dalla paura ed affettiva, volta per lo più a spaventare, mentre altri due tipi di aggressività vengono attribuiti ad individui di sesso maschile e riferiti a situazione di dominanza sul territorio o a meccanismi legati al sesso.

 

Infatti il livello degli androgeni risulta strettamente legato ai comportamenti aggressivi negli animali, mentre nell’uomo la relazione è meno chiara, ad ogni modo in entrambi i casi è forte l’evidenza di una componente neurobiologica dell’aggressività.

 

Le manifestazioni comportamentali e fisiologiche sia dell’aggressività predatoria che di quella affettiva sono mediate dal sistema nervoso somatico e dal sistema nervoso autonomo, ma le vie devono divergere dallo stesso punto per rendere conto delle importanti differenze delle risposte comportamentali.

 

La vecchia concezione neurofisiologica che si basava sulla localizzazione di centri fissi è stata oggi sostituita da quella di più recente acquisizione che preferisce piuttosto parlare di “circuiti” funzionali costituiti da strutture e vie nervose che partecipano simultaneamente alla regolazione di funzioni specifiche. D’altro canto, nella formazione di un comportamento aggressivo risultano implicati non soltanto aree nervose diverse ma anche mediatori chimici diversi, i quali nel modulare il comportamento nei singoli individui, inevitabilmente ci rimandano al genoma. Adrenalina, noradrenalina, dopamina, serotonina, acelticolina, oltre che degli ormoni sessuali, intervengono nella fase di eccitazione e di inibizione del comportamento aggressivo. Inoltre i feromoni sembrano svolgere un importante ruolo nel suscitare comportamenti aggressivi.

 

Da un rapido sguardo sui substrati biochimici, si comprende come ad esempio la serotonina, la quale inibisce diversi comportamenti, modula l’impulsività e disinibisce il comportamento: ne risultano aumento di aggressività e disinibizione degli atti aggressivi contro gli altri o contro se stessi.

 

Studi recenti hanno dimostrato come nei suicidi violenti e negli individui con comportamento impulsivo-aggressivo i livelli di acido 5-idrossindolacetico del liquido cerebro-spinale lombare sono più bassi rispetto ai controlli. E’ stata anche dimostrata una correlazione tra bassi livelli di acido 5-idrossindolacetico, alcolismo (specie quello precoce) e tentativi di suicidio. Nella specie umana si osservano generalmente livelli più alti di serotonina nelle femmine rispetto ai maschi ed è possibile diminuire comportamenti autolesionistici/autolesivi in soggetti con handicap mentali sottoponendoli a un trattamento farmacologico ed a una dieta in grado di modificare il contenuto cerebrale del neurotrasmettitore. Minore è dunque l’attività dei sistemi serotoninergici, maggiore è la probabilità che l’individuo risponda con più aggressività a circostanze ambientali avverse, a minacce, a frustrazioni.

 

Studi eseguiti su animali hanno evidenziato che gli ormoni androgeni, soprattutto il testosterone, siano correlati alla tendenza all’aggressività. Il testosterone tende infatti a provocare la comparsa di un comportamento combattivo nei maschi di molte specie. Un maschio castrato, ad esempio, è poco combattivo, ma se gli vengono somministrate iniezioni di testosterone, il comportamento aggressivo riappare. In quasi tutte le società e le culture umane, i maschi mostrano comportamenti più violenti rispetto alle femmine. Inoltre, secondo statistiche criminologiche, la più alta incidenza di comportamenti violenti si riscontra negli uomini d’età compresa fra i 15 e i 25 anni; ed è proprio in questa fascia d’età che nell’uomo i livelli di testosterone nel sangue sono massimi. Nella storia evolutiva dell’Uomo, la differenziazione fisica e comportamentale che si è sviluppata fra i sessi indubbiamente deve essersi incrementata a causa della separazione dei ruoli realizzatasi fin dalle prime fasi dell’evoluzione umana.

 

Le attività di caccia infatti richiedono una maggiore aggressività rispetto alle attività di raccolta e l’approvvigionamento degli alimenti ha rappresentato un fattore selettivo ad alto potenziale per l’aggressività. Secondo uno studio condotto su più di quattromila soldati veterani maschi, i soggetti che avevano i livelli di testosterone più alti mostravano comportamenti aggressivi ed impulsivi con una frequenza più alta rispetto agli altri soldati: ad esempio, essi assalivano altre persone, si assentavano senza permesso durante il servizio, abusavano di alcool e di altre droghe.

 

Tutte le femmine dei mammiferi, invece, accrescono la loro aggressività in seguito all’incremento di un altro ormone, la prolattina, la cui funzione consiste nella stimolazione della secrezione del latte e nel far sì che le madri proteggano i loro piccoli da pericoli esterni.

 

Il calo di progesterone nel sangue nei giorni immediatamente precedenti il ciclo mestruale nella donna induca un aumento dell’aggressività. Analogamente, l’aumento dell’aggressività osservata nelle puerpere sarebbe da imputare al brusco calo di progesterone ematico al momento del parto.

 

Da un punto di vista anatomico-strutturale, il sistema limbico è la parte filogeneticamente più antica della corteccia cerebrale e i centri nervosi limbici coinvolti nel processo dell’aggressività sono in particolare i nuclei dell’amigdala. L’amigdala è situata nel polo del lobo temporale, proprio sotto la corteccia sul lato mediale. Gioca un ruolo fondamentale nel modulare (inibire o indurre) i comportamenti aggressivi. Infatti esistono nuclei con funzione di inibizione e nuclei con funzione di induzione dei comportamenti aggressivi stessi. In particolare l’amigdala risulta importante per l’aggressività normalmente coinvolta nel mantenimento di una posizione nella gerarchia sociale.

 

Anche i lobi frontali della corteccia cerebrale possono essere implicati nella regolazione ed espressione dell’aggressività grazie al ruolo critico che rivestono nella pianificazione e regolazione del comportamento. Individui con lesioni dei lobi frontali, specialmente nella regione orbito mediale, maturano comportamenti impulsivi ed inappropriati senza apparente cura delle conseguenze che ne possono derivare.

 

Danni alla porzione orbitale del lobo frontale provocano notevoli diminuzioni delle capacità di previsione delle conseguenze remote di una azione, episodi di irritabilità transitoria, brevi scoppi di rabbia o azioni impulsive in risposta a futili provocazioni.

 

L’ipotalamo, infine, è un’importante regione cerebrale posta in profondità nell’encefalo, che prende parte alla regolazione del sistema nervoso autonomo ed è implicato nel comportamento emozionale e motivazionale e anch’esso gioca un ruolo importante nell’espressione della rabbia e dell’aggressività e la sua lesione determina una diminuzione della frequenza dei comportamenti aggressivi. Nei primi anni ’30, Ranson ed Hess, due ricercatori dell’Università di Zurigo, osservarono che la stimolazione elettrica dell’ipotalamo laterale nel gatto, evocava reazioni vegetative e somatiche caratteristiche dell’ira (aumento pressione arteriosa, arcuamento del dorso, unghie pronte a graffiare). Mentre la stimolazione dell’ipotalamo laterale provoca le manifestazioni dell’ira, lesioni di questa stessa regione inducono una condizione di docilità.

 

Riassumendo, le aree effettrici dei vari comportamenti aggressivi, la cui stimolazione evoca il comportamento corrispondente, sono localizzate a livello dell’ipotalamo e dell’amigdala. Tuttavia, in un contesto naturale di incontro-scontro fra due elementi della stessa specie, i comportamenti che ne risultano non sono dovuti solo alla attivazione delle aree effettrici, ma anche alla valutazione del pericolo effettivo ed al calcolo dei costi e benefici, oppure alla semplice paura e alla conseguente necessità di autotutelarsi. In situazioni normali, infatti, l’ipotalamo è al controllo inibitore della corteccia cerebrale, la parte dell’encefalo che in termini evolutivi è stata l’ultima parte a svilupparsi e che risulta particolarmente importante nel caso dell’uomo. Se però la corteccia cerebrale riceve un impulso provocato da una minaccia esterna, dopo l’integrazione dei vari stimoli a livello dell’amigdala, essa invia istantaneamente un messaggio all’ipotalamo esonerandolo dal controllo inibitorio e stimolando l’azione.

 

L’associazione di impulsività, aggressività e suicidio permette di postulare l’esistenza di un comune substrato neurobiologico e genetico per queste dimensioni psicopatologiche. Anche se vari sistemi neurotrasmettitoriali sono stati chiamati in causa, gli studi biochimici e di “neuroimaging” compiuti dagli anni ’80 ad oggi confermano il ruolo chiave del sistema serotoninergico nella fisiopatologia delle condotte autolesive. Una volta confermata la predisposizione ereditaria per il suicidio, è indispensabile chiarire che cosa si eredita, cioè, quali sono i fattori psicopatologici che inducono a condotte autolesive e qual è il loro substrato neurochimico e genetico.

 

Scriveva Kay R. Jamison, nota per i suoi studi fondamentali sul disturbo bipolare e il suicidio: “A meno che qualcuno viva una vita terribilmente noiosa, non abbia alcuna speranza che possa essere distrutta, nessun amore che possa essere perduto, o viaggi dalla nascita alla morte in una bolla al di sopra dei conflitti della terra, egli o ella sarà sottoposto agli stessi dolori e alle stesse tensioni che per alcuni rappresentano la ‘causa’ di morte”.

 

Quindi, davanti agli inevitabili stress a cui andiamo tutti incontro, solo alcuni soggetti “predisposti” rispondono con la rinuncia totale, quella alla propria vita, in contraddizione con ogni principio di conservazione della specie.

 

Secondo Freud l’aggressività deriva da una tendenza innata che egli chiamava istinto di morte, funzionante secondo un modello idraulico: l’energia verrebbe accumulata fino a raggiungere un livello tale da dover essere scaricata, con modalità socialmente accettabili o disapprovate. Il controllo dell’aggressività può avvenire tramite un processo di catarsi, dando al soggetto la possibilità di scaricare l’energia attraverso modalità non dannose.

 


(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link: 

http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=archivio&action=articolo&idArticolo=2185

 


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)