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Aggressività: sintesi dei contributi sviluppati dalla psicologia (prima parte)

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Aggressività: sintesi dei contributi sviluppati dalla psicologia


Dott.Andrea L.Spatuzzi - Psicologo

Premessa

L'aggressività è oggetto di interesse e di studio della psicologia da più di un secolo e in questo lasso di tempo sono state sviluppate e sistematizzate diverse teorie ed ipotesi sul comportamento aggressivo umano.


Questo interesse, all'interno della comunità di psicologia, storicamente si è mosso in ordine sparso e i vari autori spesso hanno lavorato in solitudine concettuale, prettamente nel loro alveo meta-psicologico di riferimento, in tempi differenti e su particolari diversi del comportamento aggressivo.


Ad oggi, pertanto, l'esito di questo interesse della psicologia ha determinato un contesto nel quale vi è una ricca tradizione di ricerca sull'aggressività e molte teorie ed ipotesi sul suo funzionamento, ma senza un "locus" nel quale questi studi possano ritrovarsi tutti (esempio, non è definita una psicologia dell'aggressività), generando per questo un quadro punteggiato e disomogeneo di conoscenze sull'argomento, che ne limita la possibilità di sfruttamento finalizzato a ridurre i comportamenti aggressivi e violenti nella società.


Questo lavoro si pone quindi l'obiettivo di sistematizzare in modo sintetico gli studi che la psicologia ha condotto sull'aggressività, a partire dalla fine dell'ottocento fino ai giorni nostri, con l'intento ultimo di creare uno strumento (questo lavoro) che in modo rapido possa dare un quadro d'insieme ed ordinato sui principali contributi che la psicologia ha sviluppato per comprendere il comportamento aggressivo.


In questo senso, crediamo che questo lavoro possa rappresentare un riferimento per coloro che desiderano avere una conoscenza di insieme su quanto svolto dalla psicologia per la comprensione dell'aggressività, oppure essere un punto di partenza per coloro che invece sono intenzionati a conoscere e ad approfondire questo argomento.


Il lavoro inizia con una parte introduttiva che tenta di definire alcuni punti importanti quando si parla di aggressività: i significati nella lingua italiana, la natura sociale o biologica dell'aggressività. A questa sezione ne seguono altre due: in una si contemplano i contributi sull'aggressività della psicologia sperimentale e nell'altra quelle della psicologia clinica-dinamica. In queste due parti sulla psicologia dell'aggressività - il cuore del lavoro - sono stati menzionati solo quegli autori che all'aggressività hanno dedicato i loro studi e che hanno scritto definendo aspetti importanti ed originali per i loro tempi. Sono solo accennati altri autori, mentre altri sicuramente mancano.


In fine e sempre nel tentativo di rendere utile questo lavoro, dopo una sintesi pensata dei contributi sviluppati dalla psicologia sul tema dell'aggressività, vi sono le conclusioni e la bibliografia. Le prime, vogliono dare un quadro generale su come attualmente è orientato l'interesse della psicologia che studia l'aggressività; mentre la bibliografia intende fornire, oltre ai riferimenti su quanto è stato scritto, un'ampia panoramica degli autori e delle loro opere dedicate all'aggressività.


Questioni di fondo ed inquadramento del tema

L'aggressività presenta delle caratteristiche che la rendono oggetto di interesse e di studio di molte altre branche della conoscenza diverse dalla psicologia. Solo a titolo d'esempio, l'aggressività, oltre che dalla psicologia, è ampiamente considerata da discipline quali: la sociologia, la biologia, la medicina, l'etnologia, l'etologia, la filosofia, il diritto, la biochimica..., rendendo questo aspetto assai studiato e molto ben conosciuto da numerosi punti di vista.


Rimanendo nell'alveo della psicologia, prima di entrare nelle varie teorie che hanno cercato di definire l'aggressività, crediamo importante affrontare tre aspetti preliminari che in vario modo percorrono questi studi: le definizioni linguistiche del concetto di aggressività; la natura biologica o culturale dell'aggressività; le differenze tra i concetti di aggressività, violenza e distruttività.


Dal punto di vista semantico, in generale aggressività significa un agito che tende all'ostilità e finalizzato alla diminuzione del potere dell'altro, e dalla "vittima" vissuto come minaccia al proprio potere (1).
Oltre ad una definizione semantica, però l'aggressività viene vista e studiata anche dal punto di vista del suo significato etimologico.


La parola aggressività deriva dal latino Aggredior e significava avvicinarsi o avvicinare e veniva usata spesso come sinonimo per indicare l'azione di accusare, di intraprendere, di assalire. Essa è formata dalla composizione di due parole Ad (moto a luogo) più gredior. Gredior a sua volta, deriva da Gradi, di origine celtica, che significava camminare, procedere per passi.
Da gredior derivano poi tutte quelle parole che sottolineano l'andare, la vicinanza, l'entrare in contatto, come ad esempio: In-gredior, andare dentro; Pro-gredior, andare avanti; Re-gredior, andare indietro; fino al nostro Ad-gredior, andare verso . Possiamo allora concludere da questa rapida analisi etimologica che la parola aggressività inizialmente significava procedere, avanzare, raggiungere i propri scopi e in essa non vi era un aspetto morale predominante, in quanto non prevedeva implicitamente un agito tendente all'ostilità, e a creare vittime.


Dunque, ritornando alla lingua italiana corrente, in generale il concetto di aggressività significa una qualità dell'azione che si determina dagli intenti che si hanno e dai risultati che ottengono. Questi possono essere una diminuzione del potere dell'altro (visione collettivista del significato, presente nella componente semantica del termine), oppure riuscire ad ottenere un risultato, un miglioramento personale senza privare gli altri del loro potere (visione individualista del significato, presente nella componente etimologica del termine).


Vedremo che nell'ambito della psicologia spesso il significato sottointeso è quello semantico - cioè la visione più collettivistica del concetto - a discapito del significato etimologico.
Per rispondere alla questione se l'aggressività sia socio-culturale o biologica-naturale, ci vengono in aiuto discipline come l'etologia, la biologia e la fisiologia medica, le quali, ognuna a suo modo indicano risultati che chiariscono come l'aggressività non sia totalmente ascrivibile alla natura e alle caratteristiche biologiche, né possa essere totalmente inscritta e fatta derivare dalla società-cultura. Per esempio, nel mondo animale l'aggressività (2) compare nei casi di difesa del territorio, difesa della prole, per accoppiarsi e per difendere il gruppo e le gerarchie al suo interno, mentre non esiste come finalità a sé come nell'uomo, ma solo come comportamento che tiene conto dell'ambiente e si attiva per mezzo di un vissuto proprio nell'ambiente e con l'ambiente.


Altri esempi su come l'aggressività si intrecci tra natura e cultura arrivano dagli studi sulla fisiologia umana, nei quali è chiaro come a livello biochimico e neurofisiologico l'aggressività non sia rintracciabile, visibile: non esiste un ormone o una zona del cervello o un muscolo né altro direttamente riconducibile all'aggressività.
Gli esperimenti condotti attraverso la somministrazione di alcune sostanze eccitanti (adrenalina, endorfine di sintesi...) a dei soggetti hanno dimostrato chiaramente il contributo del soma nei comportamenti aggressivi, in quanto tali sostanze facilitavano le espressioni aggressive.


È altrettanto vero che le stesse sostanze partecipano anche ad altri agiti, non aggressivi, come per esempio prendere un treno o nell'impegno su un compito: a parità di somministrazione di queste sostanze, se il soggetto è in un ambiente "pacifico", egli non esprimerà aggressività. Pertanto, non è pensabile collocare l'aggressività unicamente in uno dei due poli (aggressività naturale o culturale), mentre sembra più veritiero che il sistema biologico funga più da supporto all'essere vivente che agisce in senso aggressivo all'interno di un preciso ambiente e tempo (società e cultura). Soma da una parte e sistema socio-culurale dall'altra, di volta in volta partecipano in misura diversa nello stabilire i vincoli e le opportunità che ha un soggetto aggressivo.


Un altro aspetto che si incontra trattando il tema aggressività è il suo rapporto con la violenza e con la distruttività, temi anch'essi molto studiati.
Questo rapporto non è costante, non sempre dove c'è violenza c'è aggressività o distruttività e viceversa, però il rapporto sussiste sia nel pensiero del senso comune, dal punto di vista fenomenologico e paradigmatico.
Invece violenza significa abuso della propria forza (fisica o per mezzo delle armi nel vocabolario) senza controllo, ed è sinonimo di aggressività (3) .


Il termine violenza deriva da vis, ovvero forza nelle lingue indoeuropee, ed è un concetto tipicamente fenomenologico che allude alla qualità del comportamento dal punto di vista dell'uso della forza, della potenza e del potere. Quindi allude ad un rapporto con l'oggetto, nel quale è evidente la sopraffazione, la violazione e il danno.
Quindi la violenza è "ogni costrizione di natura fisica o psicologica che provochi danno, sofferenza o morte di un essere animato" (Héritier, 1996) che, per la psicologia, viene mossa da una sottostante "dimensione" detta aggressività.
Il rapporto tra aggressività e violenza è fenomenico e paradigmatico, dal momento che si scorge e si distingue l'aggressività senza la violenza da una aggressività con violenza e dal momento che gli psicologi vedono nella violenza una delle diverse "figure" che può assumere l'aggressività.


Da un punto di vista fenomenologico si può facilmente osservare che se all'azione aggressiva non viene messo "un freno", per esempio di tipo normativo, culturale, o contrapponendo altra aggressività, essa "scivola" nel comportamento violento, a riprova della continuità e contiguità dei due aspetti nell'agito umano (4) .
Da un altro punto di vista, il legame tra aggressività e violenza è evidente anche nell'ambito normativo quando, dovendo valutare la capacità di intendere e di volere di un imputato (il suo grado di libertà), si ragiona sulla dinamica delle sue motivazioni: quanto coscientemente ha voluto commettere violenza?
Questa motivazione alla violenza o meno (la capacità-libertà di averla e/o saperla gestire) viene chiamata aggressività; quanto più abbiamo una personalità pervasa da aggressività (per la legge, personalità inferma) tanto meno saremo liberi di gestirla e quindi di evitare di agire violenza.


Pertanto, considerata la vicinanza tra i due fenomeni, in virtù del fatto che l'aggressività spesso anticipa la violenza, e visto l'interesse dal punto di vista psicologico che si ha in questa sede, il punto di partenza -anche se solo si volesse comprendere la violenza - rimane comunque quello dell'aggressività, che fra l'altro riesce ad essere più avulso da considerazioni morali, attratte invece dal concetto di violenza.
In merito alla distruttività e al suo legame con l'aggressività e alla violenza, si possono aggiungere altre considerazioni.
Distruttività - dal latino destruere - significa disfare quello che era stato costruito (cioè fatto con struttura), accumulando strato su strato, il che, anche dal punto di vista del significato etimologico, rimanda ad un comportamento che è capace di eliminare "l'oggetto" precedentemente costruito (5).


La distruttività, argomento caro soprattutto alla psicoanalisi e alla psichiatria, è per questo contemplata come un indice di patologia dell'agito aggressivo - l'estremo male - soprattutto quando l'aggressività annulla potenziali e fisicità, quando l'aggressività non tiene conto delle economie psichiche (o più in generale delle energie), né dell'aggredito, né di chi aggredisce, al punto che l'azione aggressiva esaurisce il potere (le energie) di entrambi: aggredito ed aggressore.
Quindi si parla di distruttività, ritenendola una manifestazione dell'aggressività, nei casi in cui l'esito dell'azione (aggressiva) non "ri-crea", non è generativo di nessuna "novità" fra i due poli in conflitto.


Da questi aspetti sopra menzionati ed altri qui non riportati, è evidente una stretta relazione tra aggressività, violenza e distruttività, ma per completezza ci sentiamo anche di sottolineare alcune differenze tra i tre concetti e i corrispondenti agiti. Per esempio, è evidente dalla natura etimologica delle tre parole che ci sono differenze: ognuna ha una diversa radice etimologica di derivazione e ognuna significa "cose" diverse; poi, un'altra osservazione è che non sempre la violenza è accompagnata all'aggressività, ed in fine, che la percezione della violenza ha una matrice trans-culurale (i segni della violenza sono universali), che invece non possiede l'aggressività (i cui segni sono più ancorati alla cultura di riferimento).


Chiariti questi fondamentali aspetti che parlando di aggressività vengono preliminarmente, è ora importante considerare cosa, su un piano descrittivo, in questo lavoro intendiamo per aggressività. A questo proposito sembra adeguata, perché attuale, la definizione di aggressività che dà Fornaro (Fornaro, 2004), che la definisce come "la disposizione intenzionale, consapevole o inconsapevole, a un comportamento lesivo (o potenzialmente lesivo) sotto il profilo fisico e psicologico, diretto a persone o animali o a cose, tale da essere - salvo rari casi - avversato dalle persone o da animali che ne sono l'oggetto, e condotto al fine di difendere o preservare l'integrità fisica o psicologica di sé (o del proprio gruppo), o al fine di affermare la supremazia fisica o psicologica propria (o del proprio gruppo).


Questa definizione, che lascia fuori problemi su natura-cultura, poli/mono fattorialità, e non specifica se l'aggressività debba essere intro o estero diretta, si radica sul significato semantico attuale della parola aggressività, ma include in parte anche il significato etimologico del termine. Di fatto riconosce all'aggressività un potere di autoaffermazione, pur non lasciando intendere che questo sia l'unico modo per potersi affermare: polemos non è il padre di tutto!


Sono poi importanti alcuni punti della definizione sopra riportata, soprattutto sul piano descrittivo e come aspetti analizzati dalla psicologia, quali per esempio: la disposizione intenzionale, che sottolinea la possibilità intrinseca della persona e della società di essere aggressivi; il sottolineare la lesività, che specifica come gli atti aggressivi che si contemplano sono solo quelli che rimandano ad un senso di minaccia e paura, escludendo quelli che, pur essendo atti aggressivi, non assumono significato di lesività; la direttività, cioè che gli atti aggressivi non hanno intermediari; l'avversione e quindi la difesa di chi subisce aggressività, che tende a tutelare l'integrità di un sistema interno che proprio l'aggressività minaccia.


La definizione di Fornaro ci permette di inquadrare l'oggetto "aggressività" dal punto di vista della psicologia, potendo così avere una definizione di riferimento nella quale leggere fra le righe i vari aspetti che la psicologia considera dal momento in cui parla di aggressività.
La sintesi degli studi prettamente psicologici che seguirà, parte da questo sintetico tentativo di inquadrare la questione. Essa, per evitare dispersività, percorrerà una sorta di via centrale della psicologia, suddivisa per comodità espositiva in studi della psicologia sperimentale e clinico-dinamica, però tralasciando quell'importante area di confine tra psicologia ed altre discipline, nella quale vi sono i contributi di scienze come la psico-fisiologia, la psicologia animale o la psichiatria.


L'aggressività dal punto di vista della psicologia sociale sperimentale

Gli studi psicologici sociali sperimentali sull'aggressività trattano l'argomento facendo uso della sperimentazione e dell'empirismo e da sempre sono più predisposti all'individuazione delle cause esterne - ambientali - che possono attivare comportamenti aggressivi.


La tradizione sperimentalista sull'aggressività può essere fatta risalire a Ivan Petrovic Pavlov e ai suoi studi rigorosamente scientifici sui cani e sulle secrezioni endocrine generate da stimoli ambientali particolarmente organizzati nelle sequenza temporale (Pavlov, 1936).
Pavlov in questo modo, anche con eleganza e rigore epistemologico, dà un grosso contributo alla psicologia, disvelando alcuni fenomeni di apprendimento - il Condizionamento Classico - che delineano un chiaro rapporto tra la modalità di presentazione degli stimoli ambientali e la capacità fisiologica di modificare le proprie risposte istintive, gettando così un primo ponte relazionale tra ambiente e soma.
Su questa linea di studi, Pavlov si concentra anche sulle risposte fisiologiche aggressive e sull'associazione di stimoli che hanno potere di scatenarle o inibirle, mettendo in evidenza soprattutto il rapporto tra istinto di alimentazione e quello aggressivo.


In questa direzione l'aggressività assume valore di istinto come la fame, e l'autore fa osservare che l'istinto ad alimentarsi è più potente ed inibente dell'istinto di aggressività: un animale in uno stato di aggressività tenderà a diminuire la stessa a favore di un comportamento di alimentazione, se la scelta è tra mangiare ed aggredire.
Emerge così un principio di funzionamento istintuale, dove la direzione dell'eccitamento è determinata dalla forza relativa a dei centri che hanno azione reciproca e contraria.
Successivamente, a partire da questi studi si osserverà che, nonostante la frequenza delle dinamiche sopra indicate, sussistono delle eccezioni alla prevalenza dell'istinto all'alimentazione, laddove lo stimolo doloroso e scatenante aggressività sia molto forte (Le Ny e Montpellier, 1968).


Comunque con i suoi studi Pavlov permette di comprendere come può essere stimolata l'aggressività (associazione di stimoli), dando un carattere opportunistico all'istinto aggressivo e collocando lo stesso, in pieno spirito darwiniano, fra gli istinti necessari all'adattamento della specie.
Sulla linea sperimentalista, negli anni trenta il tema aggressività è affrontato anche da Burrhus Federic Skinner nei suoi studi sull'apprendimento, poi definito Apprendimento Operante (Skinner, 1969), per via del ruolo attivo-operativo del soggetto e della sua capacità di creare, nel processo di condizionamento, comportamenti nuovi e non ancorati a riflessi o istinti biologici.
In queste ricerche l'aggressività è un comportamento modulabile con programmi di rinforzi positivi (premi) o negativi (punizioni) (Skinner, 1969), strettamente legato alla reciprocità relazionale e di cui, secondo l'autore, la società ha grosse responsabilità nel promuoverla o nel controllarla ed inibirla.


Skinner vede due tipi di aggressività a partire dagli effetti che essa crea sull'altro: una filogenetica ed una ontogenetica. L'aggressività filogenetica è istintuale e funzionale alla specie dal momento che essa rappresenterebbe, attraverso la lotta con unghie e denti, l'archeitipo della selezione naturale e ad essa viene attribuita una qualità morale buona, dal momento che non porta automaticamente ad una aggressività finalizzata a fare del male. Diversamente, l'aggressività ontogenetica rappresenta l'agito orientato a "fare del male", che si genera in quanto previsto dalla società, spesso rinforzato dalla stessa ed efficace al punto da strutturarlo nel carattere collettivo e soggettivo.


L'autore approfondisce l'aggressività ontogenetica ed innanzitutto, da buon pragmatista, sostiene che qualsiasi agito aggressivo si voglia considerare, anche il suicidio, ha sempre uno scopo positivo e rinforzante che giustifica l'aggressività. Sottolinea poi come l'aggressività sia l'esito della reciprocità intrinseca alla relazione, dal momento che relazionare in modo aggressivo comporta nell'altro altrettanta aggressività, con il rischio di generare una escalation di aggressività. Paradossalmente però Skinner mette in guardia dal rispondere con affetto e amore all'aggressività, in quanto l'affetto e l'amore vengono vissuti dal soggetto aggressivo come una "vincita" sull'atro e quindi come un rinforzo positivo che sostiene l'aggressività stessa (Skinner, 1971).


Pertanto Skinner, che si pone il problema sociale di come abbassare il livello di aggressività ontogenetica, sostiene che la stessa non può essere trattata unicamente con un sistema sociale punitivo: dal suo punto di vista significherebbe spostare l'attore aggressivo dal soggetto alla istituzione e significherebbe creare le condizioni per aumentare l'aggressività ontogenetica, visto che egli ha ben dimostrato come rinforzi negativi, e una risposta aggressiva aumentino il livello complessivo di aggressività.


In questo senso, l'autore propone una sua soluzione sociale al problema dell'aggressività ontogenetica, che passa dalla moralizzazione della società, che non deve più comunicare l'efficacia della violenza e che deve controllare i comportamenti aggressivi per mezzo dell'impegno delle persone su attività che permettano di occupare il tempo e scaricare l'aggressività: per lui è un buon esempio lo sport (Skinner, 1971).
Sempre negli stessi anni di Skinner e sempre negli USA, John Dollard, insieme ai suoi collaboratori, è un altro autore sperimentale che dà un contributo alla conoscenza dell'aggressività.


Egli, pur sperimentalista, parte dai lavori di Freud e, con un buon impianto di ricerca, arriva a sostenere che l'aggressività è sempre la conseguenza di una frustrazione e che una condizione frustrante conduce sempre ad agiti aggressivi ( Dollard e al., 1939).
Questa teoria di Dollard, però, non giunge del tutto nuova, visto che già in precedenza vari autori di diversa provenienza avevano sottolineato il rapporto tra il sentirsi frustrati e il reagire in modo aggressivo (6). Nonostante il grande interesse che questa teoria suscitò all'epoca, presto fu ridimensionata nel dimostrare l'inesistenza di un rapporto strettamente biunivoco tra frustrazione ed aggressività (7) .
Quello che invece rimane interessante del lavoro di Dollard, aldilà dello scientismo dato a fenomeni mentali già ampiamente individuati e descritti da Freud (Freud, 1905, 1920, 1922), è l'aver isolato e ragionato sulla variabile dell'inibizione degli atti aggressivi. Egli sottolinea che l'aggressività è difficilmente controllabile sul piano on/off, mentre lo è di più su un piano di palesità o non palesità. Come dire che l'aggressività non può essere più di tanto inibita, mentre per timore di punizioni, può non essere visibile, non palese (Dollard, 1939).


Se gli autori considerati fino ad ora hanno preso l'aggressività più da una prospettiva personologica, segue un importante autore, Kurt Lewin, che invece considera la questione da una prospettiva più gruppale.
Lewin legge l'aggressività all'interno di un modello che considera il comportamento come l'esito dell'incontro tra persona ed ambiente psicologico (Lewin, 1939), dove la struttura collettiva e il clima gruppale possono incidere sul comportamento del soggetto più di quanto possano fare le sue istanze mentali interne.


Così per Lewin l'aggressività risulta da molti fattori ambientali e personali, che possono favorire o inibire lo stesso comportamento sulla base dell'andamento delle forze in campo (forze personali e gruppali).
Sovrapponendo gruppo a persona, nel senso che vede in entrambi identiche dinamiche di coesione e strutturazione tra parti che definisce interdipendenti (Lewin, 1939), Lewin contribuisce alla comprensione dell'aggressività espressa dai gruppi e dai rapporto tra i ruoli riconosciuti all'interno degli stessi (8) .
In particolare, risulta interessante la sottolineatura sul rapporto tra sentimento di tensione ed aggressività e sugli effetti dell'aggressività determinati dal gradi di rigidità del gruppo.


Il grado di tensione necessario a generare aggressività è dato dal grado di irritazione proveniente dall'esterno (stimoli percepiti come disequilibranti), dalla pressione relazionale esercitata da colui che ricopre il ruolo di leader e dallo spazio fisico all'interno del quale ci si può muovere, aspetti che sulla base della loro intensità e frequenza generano la forza propulsiva dell'aggressività.
Questo dinamismo a sua volta deve tenere conto del clima gruppale e di quanto questo permetta l'agito aggressivo: un clima di punibilità e una rigidità strutturale del gruppo fanno aumentare l'aggressività.


Così l'autore mette in evidenza la multifattorialità dell'agito aggressivo, ma soprattutto evidenzia il rapporto sociale tra clima ed aggressività, ponendo l'accento sulla flessibilità funzionale e sulla capacità espressiva del gruppo, che possono accentuare o meno l'aggressività nel gruppo stesso.
In fine, anche Lewin sottolinea la responsabilità della società e della cultura in generale, poiché dimostra continuamente l'efficacia del comportamento aggressivo anziché sottolineare come la via aggressiva sia "una via differente" rispetto a clima, riti, norme del gruppo e della società (Lewin, 1939).


Più vicino ai giorni nostri è invece il grande lavoro condotto da Stanley Milgram, sempre negli Stati Uniti, in particolar modo sui temi del conformismo, del condizionamento sociale e dell'obbedienza.
Proprio dallo studio dell'obbedienza derivano i contributi più importanti che l'autore dà al tema aggressività (Milgram, 1963).
Milgram (Milgram, 1974) parte dal domandarsi quanto una persona che per valori e principi è contraria a fare del male, sotto pressione di un comando sia disposta ad essere aggressiva e violenta.
Da questo quesito egli arriva a definire con grande chiarezza quanto un ambiente percepito come autorevole e la possibilità dell'aggressore a deresponsabilizzarsi contribuiscano fortemente a generare agiti violenti ed aggressivi, anche in soggetti naturalmente non portati a compiere tali atti.


In questo modo egli evidenzia che l'aggressività si ottiene da situazioni ambientali e su qualsiasi persona. Questo è possibile se si riesce a generare conflittualità e disequilibri emozionali nei soggetti i quali, non riuscendo a fuggire o a ribellarsi (anche in assenza di punizioni), risolvono tale situazione attraverso il "controantropomorfismo" (Milgram, 1963), cioè deumanizzando i propri agiti, deresponsabilizzandosi, come se l'azione aggressiva sia opera di una "anima" diversa da quella del diretto aggressore.
Questo, secondo Milgram, avviene attraverso uno scarico di responsabilità del diretto aggressore sull'autorità e/o sull'istituzione, che - in sintesi - porta l'autore ad affermare che "anche se le persone non sono motivate ad essere aggressive, possono da un momento all'altro partecipare a comportamenti aggressivi e distruttivi" (Milgram, 1963, 1974).


Un ulteriore autore che si è occupato di agressività sul versante sperimentalista è Albert Bandura. Canadese, statunitense di formazione, si occupa di aggressività dal punto di vista dell'apprendimento, all'interno della sua più ampia teoria dell'Apprendimento Sociale (Bandura, 1973). Egli sostiene che l'aggressività sia un fatto sociale e non biologico, dato dai modelli aggressivi rappresentati dalla società e dalla capacità latente della persona di apprendere dagli stessi modelli (modeling) (Bandura, 1973).


In questo senso Bandura ritiene che il comportamento aggressivo non sia l'effetto di una frustrazione, né di una pulsione, ma l'effetto della possibilità di imparare da modelli aggressivi (modeling), specie se questi sono percepiti come socialmente accettati, efficaci e premiati.
Ma tali possibilità non sono univoche: chi ha un'attivazione emozionale può scegliere di scaricarla fra una gamma di comportamenti possibili.
Pertanto, la scelta del comportamento aggressivo, sia per qualità che per forza, dipende dalla pressione dei messaggi, dalle narrazioni socio-culturali dominanti e dalla capacità della persona di apprendere dai modelli, attraverso il "cemento" del "rinforzo vicario" (9) (Bandura, 1973), ovvero attraverso la possibilità di prefigurare come ritenuti socialmente positivi o negativi gli esiti di una nostra azione, idea che agisce come attivatore o deterrente per i comportamenti.


Con il lavoro di Bandura, vengono quindi sottolineati altri aspetti che intervengono nelle dinamiche aggressive, come la capacità di apprendere per sola esposizione, ma soprattutto come - a prescindere da condizioni mentali soggettive - l'aggressività possa esserci unicamente a partire da come la persona pensa sia il giudizio sociale su una data azione e quindi dal potersi prefigurare in anticipo conseguenze premianti o punenti il proprio agito.


Per queste ragioni, secondo Bandura l'aggressività si caratterizza come un comportamento lesivo e distruttivo che è socialmente definito come aggressivo sulla base di una varietà di fattori, alcuni dei quali risiedono in chi lo valuta piuttosto che in chi lo esegue (Bandura, 1973), relegando l'aggressività come effetto della società, più che del soggetto, e ponendo attenzione al giudizio sociale relativo ai comportamenti aggressivi.

 


Note

1 Estrapolato da: Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna. (torna al testo)

2 sull'aggressività animale si vedano anche i lavori di Lorenz, 1963, 1966, 1950; Dart, 1953; Eibesfeld, 1970, 1973, 1979; Mainardi, 1977; Tinemberg, 1953; Hidne, 1970: Wilson, 1975; De Waal, 2000 (torna al testo)

3 Estrapolato da: Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna.
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4 In merito si vedano i lavori di Skinner, 1969, 1971e di Dollard et al., 1939.(torna al testo)

5 Estrapolato da Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna.
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6 In merito vedi autori come James, nell'opera "Principi di psicologia", ed it. del 1902 o Marx, specie in "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica", ed. it. del 1976 ,o nei lavori di Freud del 1920 e 1922 ed ancora nei lavori di Adler del 1912
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7 In merito, vedere i lavori di Miller, 1941 e Sears, 1941(torna al testo)

8 Vedere studi su stili di leader di Lewin, Lippitt e White, 1939.(torna al testo)

9 In merito al Rinforzo Vicariante si vedano anche i contributi di R.C. Bolles, Theory of motivation, 1975; C. L. Hull, I principi del comportamento, ed it. 1978; E.C. Tholman Il comportamento intenzionale, ed it. 1983 (torna al testo)

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)