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Alcol e incidenti stradali: una sentenza incomprensibile

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Di Lorenzo Borselli (Consigliere Nazionale Asaps e Sovrintendente Polizia di Stato)
Forlì, 7 novembre 2010 - È una sentenza sconcertante, per molti versi incomprensibile, quella che è stata pronunciata a

Teramo nei confronti di un automobilista che, ubriaco, uccise un motociclista in uno scontro e poi si accanì sul suo corpo

mentre era ancora vivo.
I fatti avvennero la sera del 22 aprile 2010, a Teramo: Giovanni Antonio Graziani si mise alla guida della propria Mercedes

in stato di ebbrezza (1,26 g/l). All'incrocio tra via Roma e via Po si scontrò con la moto condotta da Darwin Lupinetti,

Vigile del Fuoco di 34 anni, che riportò gravissimi traumi, in relazione anche alla velocità che avrebbe tenuto, a causa dei

quali, poco più tardi, morì. Ma c'è un fatto che rese l'evento, già di per sé gravissimo, addirittura inquietante: l'

investitore, secondo molte testimonianze, sarebbe sceso dall'auto dopo lo scontro e avrebbe preso a calci il corpo esanime

del povero Lupinetti. Venerdì scorso (5 novembre), l'investitore ha potuto patteggiare la pena: 8 mesi di reclusione per l'

omicidio colposo, 40 giorni per la guida in stato di ebbrezza, 800 euro di ammenda, pena sospesa e non menzione.
La decisione del Tribunale di Teramo ci lascia sconcertati e perplessi. Non siamo avvezzi a criticare l'operato dei Giudici,

nei quali nutriamo la più profonda fiducia. Sappiamo che i provvedimenti giurisdizionali costituiscono sempre il punto di

arrivo di un complesso iter nel quale le argomentazioni logiche si fondono con quelle giuridiche. Non vogliamo dunque

asserire, con ciò che andiamo a dire, che il Giudice abbia operato in spregio alla Legge che è chiamato a far rispettare.
Vogliamo solo capire, però, come sia possibile che un uomo, ubriaco o ebbro (poco ci importa, in questa sede la differenza

semantica tra i due aggettivi), possa mettersi al volante di un'auto, travolgere una persona e ferirla così gravemente da

farla morire, scendere e prenderla a calci, e cavarsela così. Sappiamo, per averlo letto, che l'investitore fu poi arrestato

e che i calci inferti al povero Lupinetti non furono causa di aggravamento della patologia traumatica che poi l'uccise.
Senza entrare nei meandri del calcolo delle pene da irrorare, sappiamo che per un determinato reato è applicabile una pena

che prevede un minimo e un massimo: il Giudice, nella sua autonomia, sceglie verso quale direzione attestarsi, ma uno dei

criteri che dovrebbe guidarlo, crediamo, dovrebbe essere la gravità del fatto. Una rapina a mano armata, ad esempio, è

diversamente grave se il criminale che la commette è armato di un taglierino o di un Kalashnikov.
L'omicidio colposo prevede una pena da uno a 5 anni, nella sua forma semplice. Il caso di Lupinetti, non ci sembra uno di

quei casi "normali". Insomma, sappiamo che restare uccisi in strada è ormai un rischio sociale. All'agente di Polizia

Municipale che, a Firenze, uccise nell'aprile 2009 una ragazza travolgendola con l'auto di servizio, mentre stava espletando

un servizio d'istituto, il GUP ha inflitto una condanna (con rito abbreviato e, dunque, ridotta di un terzo) a 2 anni e 8

mesi.
Certamente, l'agente ha le sue colpe e le pagherà tutte, potete scommetterci, ma non aveva bevuto, stava compiendo un

servizio del proprio ufficio a tutela della collettività e, sicuramente, non si è accanito a calci sul corpo della ragazza.

Eppure le aggravanti hanno superato le attenuanti.
Se l'investitore di Teramo, che per noi resta un pirata della strada, ha avuto una condanna a 8 mesi (patteggiata e, dunque,

ridotta di un terzo), significa che si è preso il minimo, nonostante abbia violato molte altre norme del codice penale. Per

esempio, aveva bevuto. Per esempio, ha preso a calci la sua vittima e pur non avendola uccisa a pedate, le avrà inferto

lesioni, che sono volontarie e, dunque, perseguibili per legge.
Perché il minimo della pena? Quale differenza, nella sua condotta, con quella di una persona che, pur avendo provocato l'

incidente mortale si sarebbe fermata a soccorrere la vittima, magari tamponando un'emorragia, praticare la rianimazione,

chiamare i soccorsi o, anche, restare immobile?
Se si fosse comportato umanamente, sarebbe stato messo sullo stesso piano?
Se i calci ne avessero provocato la morte, lo avrebbero condannato ad una pena non inferiore a 21 anni: perché questa

forbice?
Vorremmo meglio argomentare la nostra posizione, ma non ci riusciamo: una sentenza è già di per sé una critica al

comportamento dell'imputato, argomentata in fatto e in diritto attraverso la motivazione e per questo dovremmo essere in

grado di spiegare perché, secondo noi, il Giudice ha sbagliato. Non possiamo dire questo perché non abbiamo ancora letto le

motivazioni e, dunque, il nostro è solo un pensiero, primitivo, di disappunto.
Però, secondo noi, la Legge dovrebbe anche rappresentare un'occasione, per il Popolo, di ricordare ciò che è giusto e ciò che

è sbagliato. Così, invece, il Popolo non ci capisce più niente.