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News di Alcologia

Anche i medici diventano proibizionisti: guerra all'alcol, come col fumo

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Sulle bottiglie deve comparire un'etichetta terrificante che metta in guardia dai pericoli per la salute, come avviene per le sigarette. Analogamente a quanto si è fatto col tabacco, bisogna «demonizzare », fino alla spasimo il bicchiere, fonte di molti mali, renderne difficile la vendita, impedirne la pubblicità e molto altro ancora.
La rivista Lancet non nuova a prendere di petto un problema e costruirci sopra una campagna di opinione (spesso efficace) lancia un messaggio forte, quasi un bollettino di guerra. Spazzando via l'equivoco che se per il fumo bisogna arrivare all'eradicazione del vizio, per l'alcol ci si possa accontentare dell'uso moderato, che non nuoce, anzi «fa buon sangue».
«Non è vero, o meglio non è dimostrato, nonostante che si provi da molti anni a dar credito alla colorita diceria degli effetti benefici sul cuore e sui vasi - ammonisce dalla pagine della rivista inglese Ian Gilmore, del Royal College of Physicians di Londra - .
Non c'è un livello di consumo di alcolici scevro di rischi: nessuno lo ha scovato finora. E anche il privilegio, tutto francese, di non avere il colesterolo sopra le righe nonostante il gran consumo di burro, attribuito al potere antiossidante dei polifenoli del vino rosso, è solo un'ipotesi affascinante ». I dati certi in merito al problema sono, invece, meno rosei. Se è vero che un decesso su 25 nel mondo è dovuto all'abuso di alcol, in Europa addirittura uno su 10 e che le patologie favorite o aggravate dalla bottiglia sono una lista impressionante (tumori alla mammella, alla bocca, al colon, depressione, ictus, violenza, incidenti automobilistici) e che l'etanolo distrugge il fegato, le contromisure devono essere energiche, anzi drastiche.
Ha provato a schematizzarle in sei punti chiave Peter Anderson, della scuola di salute pubblica dell'università di Maastrict, in Olanda, insieme a colleghi dell'Organizzazione mondiale della sanità e dell'università di Berlino.
Primo: istituire una tassa sugli alcolici, proporzionale al contenuto in alcol.
Secondo: imporre il monopolio di stato sulla vendita al dettaglio degli alcolici, l'accesso all'acquisto solo per i maggiorenni, limitare le fasce orarie in cui è possibile acquistarli.
Terzo: divieto di ogni forma di pubblicità diretta e indiretta di questi prodotti.
Quarto: stabilire un limite di alcolemia, cioè di tasso alcolico ammesso per la guida, e poi abbassarlo progressivamente.
Quinto: potenziare la rete dei consultori per l'alcol.
Sesto, e non poteva mancare, incrementare i programmi educativi sui rischi dell'alcol nelle scuole e avviare a livello nazionale, ma anche sovranazionale, europeo e mondiale (come è successo per le sigarette) grandi campagne di informazione in merito.Insomma, un bel da fare.
L'Italia, messa sotto esame su questa griglia, ne esce malconcia quanto gli altri paesi europei, peraltro, anche se qualcosa è stato fatto negli ultimi anni (divieto di vendere alcolici nelle aree di servizio delle autostrade, in tutti i locali di intrattenimento dopo le 2 di notte), ma poi disatteso, soprattutto per quanto riguarda i ragazzi: i gestori delle discoteche non chiedono la carta di identità prima di servire un cocktail alcolico.
L'esempio cui fanno riferimento gli esperti sul Lancet è quello della Francia dove nel 1991 entrò in vigore la loi Evin, dal nome dell'allora ministro degli affari sociali, Claude Evin, che mise al bando la pubblicità degli alcolici, vino compreso - un grande scandalo! - in televisione e al cinema (è ammessa soltanto sulla carta stampata destinata agli adulti e per radio, sempre accompagnata dalla scritta «l'abuso di alcol è pericoloso per la salute»).
«La Francia resta l'esempio da seguire - commenta Emanuele Scafato, gastroenterologo, direttore dell'osservatorio nazionale sull'alcol dell'Istituto superiore di Sanità e responsabile del centro Oms per la ricerca sull'alcol - . Da noi esiste solo un codice di autoregolamentazione, ma i panel che dovrebbero vigilare sulla sua attuazione sono composti da rappresentanti delle aziende che producono alcolici e da pubblicitari. Una legge, richiesta anche dalla Consulta nazionale Alcol, che regolamenti la pubblicità impedendo ammiccamenti ai giovani è assolutamente necessaria, vista la crescente aggressività del mercato». La Beck's ha appena lanciato una birra destinata addirittura alle ragazzine, la Hello Kitty, con tanto di etichetta, apparentemente innocua, in rosa.
«A difesa dei giovani in Italia è appena entrato in vigore il divieto di vendita e consumo dei alcolici al di fuori degli esercizi da mezzanotte alle 7 di mattina - ci informa Scafato -. E sono previste sanzioni da 2.000 a 12.000 euro anche quando il reato è commesso tramite i distributori automatici».
Nel nostro Paese, come nel resto di Europa, si sta assistendo ad un cambiamento radicale delle culture del bere: i giovanissimi considerano l'alcol uno strumento per «sballarsi», bevono per ubriacarsi e non per il piacere di farlo. È quello che gli americani chiamano binge drinking.
Stando ai dati dell'osservatorio dell'Istituto superiore di sanità, in Italia tra i ragazzi da­gli 11 ai 15 anni, un ragazzo su 5 è un consumatore a rischio di dipendenza, tra i sedicenni, 14 su 100 bevono con modalità rischiose. Tra le ragazzine questi comportamenti sono meno diffusi, ma presenti comunque.
«È proprio questo nuovo modo di avvicinarsi all'alcol del mondo giovanile che mi fa restare un po' scettico di fronte a queste iniziative 'legali' e ai tanti divieti - commenta Riccardo Gatti, responsabile del dipartimento per le dipendenze della Asl di Milano - . I ragazzi oggi si muovono in un mondo parallelo a quello degli adulti, dove la rete governa e soddisfa i bisogni. Si può vietare qualsiasi forma di pubblicità, ma poi loro attraverso internet se ne riappropriano. Una legge come quella francese è vecchia: bisogna pensare ad altro, a come far penetrare certe informazioni sull'alcol nei blog, nei loro luoghi di ritrovo». D'altro canto il salutismo «forzato» rischia di essere invadente e forse un po' lesivo della libertà personale.
«Rimango dell'idea che la strategia del divieto sia molto più semplice di quella che cerca gli strumenti giusti per promuovere comportamenti consapevoli» conclude Gatti. Linea dura o informazione? La risposta è difficile.