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Autorità e dipendenza nelle professioni di aiuto – Il paradigma del Counseling

Autorità e dipendenza nelle professioni di aiuto – Il paradigma del Counseling

 

Autorità e dipendenza nelle professioni di aiuto – Il paradigma del Counseling

 

di Omar Montecchiani

 

Dice Jung:

 

« […] è la personalità del terapeuta, con l’esperienza e l’analisi della propria sofferenza psichica, a fare il buon psicoterapeuta. La conoscenza tecnica è solo un supporto, anche se necessario» [1].

 

Questa affermazione, se presa in modo unilaterale e assolutistico, spinge alla deduzione di due affermazioni in se stesse paradossali:

 

1) La personalità del terapeuta e la conoscenza tecnico-teorica del suo impianto formativo, rappresentano due dimensioni della persona del terapeuta almeno parzialmente slegate tra loro, scisse, separate (al che verrebbe da domandarsi da che cosa).

 

2) La conoscenza tecnica, essendo un qualcosa che viene presentato come un “supporto” (“un’appendice” quasi), rispetto al rapporto terapeutico e alla efficacia terapeutica, e quindi implicitamente come un elemento “staccato” dalla personalità stessa del terapeuta, risulta essere, appunto, qualcosa d’impersonale (al che verrebbe da chiedersi, essendo la strumentalità tecnica una determinata acquisizione, chi è il soggetto di tale acquisizione, e l’emergere della domanda sui vari perché di una tale acquisizione).

 

A mio avviso, invece, l’affermazione di Jung rappresenta una problematizzazione implicita dell’immenso tema del cambiamento terapeutico e degli elementi che concorrono a un tale cambiamento ed è proprio a partire da queste derive aporetiche, che viene indicata la risoluzione del problema del cambiamento terapeutico, direttamente nella integralità e totalità della persona del terapeuta stesso – nell’uomo del terapeuta. A partire da questo spunto, è possibile tratteggiare la figura del Counselor rispetto alle relazioni d’aiuto e alla relazione terapeutica.

 

Non essendo la mera messa in atto di una certa strumentalità tecnica di tipo teorico-pratica di un certo soggetto, ma essendo il soggetto stesso a farsi, nella relazione con l’altro, strumento di questa e in questa stessa relazione per sé e per l’altro, il Counseling non è integralmente inquadrabile all’interno di una delle molteplici “professioni” di aiuto di tipo psico-sociale classicamente intese, ma rappresenta una vera e propria modalità d’essere “per” l’altro e “con” l’altro.

 

Una specifica forma di esistenza che – appunto in quanto tale – coinvolge l’interezza della persona e non soltanto la sua capacità di operare attraverso strumenti teorico-pratici.

 

Lapidaria in questo senso l’affermazione di Rogers, che esprime la centralità dell’esperienza terapeutica stessa, nell’attività di formazione del terapeuta, e che vede coinvolta la sua stessa persona per quanto riguarda l’apprendimento del metodo terapeutico:

 

«Ho utilizzato me stesso come strumento di ricerca» [2].

 

Il Counseling, pur avendo alle spalle una determinata visione del mondo e dell’uomo, seppur utilizzando determinati strumenti ermeneutici nella pratica clinica (PNL, analisi transazionale, cognitivismo, costruttivismo etc. [3]), tuttavia, si rapporta all’altro “essendo”. Non opera cioè una riduzione dei fenomeni umani, a partire da una interpretazione riduzionistica dell’umano nella sua integralità all’inconscio, o ai suoi comportamenti, ma utilizza l’insieme della strumentalità tecnica in senso indicativo, orientativo, operativo e soprattutto integrativo rispetto alla globalità della persona umana – all’interno di un processo di accrescimento, che lascia al cliente la libertà di muoversi a partire dalle sue categorie interpretative e di senso. Esplicita in questo senso una diversa categorialità professionale, che sdogana la gerarchizzazione e la medicalizzazione tipica che struttura – nel mondo contemporaneo – il rapporto tra “paziente e professionista”. Nell’incontro di Counseling si ha a che fare con due o più “individui”, “persone”, “soggetti umani”, che vedono ripartite le proprie capacità personali in termini uguali, in un rapporto che ridistribuisce (o cerca di ridistribuire) in egual misura le reciproche responsabilità personali [4].

 

Il cliente viene continuamente rimandato alla dimensione originaria – forse infondabile, ma fondante – della propria libertà sostanziale: l’unica dimensione umana che permette di tratteggiare i confini della propria individualità, e l’uscita dunque dalla dimensione fusionale tra sé e l’altro chiamata “adualismo” (ben specificata fenomenologicamente e genealogicamente da Odier [5]).

 

Partendo da queste basi possiamo dire dunque che il Counselor realizza direttamente nella specificità della propria persona l’auspicata “umanizzazione” delle professioni di aiuto così tanto voluta da Rogers, ma andando ben oltre questa stessa auspicabilità.

 

La visione olistica della persona umana che presiede al modo di essere del Counselor, avvicina senza confondere i rispettivi universi di senso, “professionista” e “cliente”, all’interno dell’unità e della unicità del rapporto e di una visione globale dello stesso, senza incappare dunque in quell’ «atteggiamento indifferente di ritiro, anche se benevolo» [6] in cui si rifugiavano i fautori della psicoanalisi classica.

 

Risulta chiaro infatti che soltanto un orizzonte configurativo di tipo olistico-sistemico tra professionista e paziente (o cliente), può permettere la destrutturazione della categoria reificante e obiettivante dell’operatività tecnica del mondo contemporaneo. In questa visione infatti non può trovare posto né il cosiddetto paziente-organo, né una psiche sganciata dal rapporto con il mondo e dal modo di essere del soggetto umano da analizzare e scomporre. È solo all’interno di questo orizzonte – al di là della diversificazione degli approcci al Counseling – che può venir meno la cosiddetta cosificazione obiettivante dell’altro – da una parte – e il rapporto gerarchizzante, perché non paritetico nel rapporto io-tu, tra il professionista e il soggetto bisognoso di aiuto – ed è possibile quindi far si che la specificità intrinseca della dimensione di senso dell’altro emerga da sé in noi. Come insegna Maslow:

 

«La maniera più efficace di percepire la natura intrinseca del mondo è di essere più ricettivi che attivi, determinati il più possibile dall’organizzazione intrinseca di quanto si percepisce, e il meno possibile dalla natura di chi percepisce» [7].

 

 


(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link:

http://filosofiaenuovisentieri.it/2013/10/20/autorita-e-dipendenza-nelle-professioni-di-aiuto-il-paradigma-del-counseling/

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)