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Bevo e scrivo: i grandi della letteratura prigionieri di una bottiglia

Bevo e scrivo: i grandi della letteratura prigionieri di una bottiglia

Tommaso Pincio
Si fanno chiamare habitué. In realtà sono alcolisti. Si recano, ogni sera, nello stesso bar. Si siedono al loro posto e

ordinano un drink. Anzi, no. Non lo ordinano. Il barista sa già che cosa versare, perché pure il drink è sempre lo stesso. È

il vantaggio di essere habitué: non hai bisogno di chiedere. Vantaggio si fa per dire, ovviamente. Perché, in fondo, è come

buttarsi dal decimo piano lasciando che sia qualcun altro a spingerti nel vuoto.
Non che i baristi siano messi meglio degli habitué. Le statistiche dicono che, in cima alle morti per cirrosi epatica, ci

sono proprio loro: quelli che versano i drink. E un giovane barman è per l'appunto il protagonista di Abluzioni, Neri Pozza,

pp. 192, euro 15,00 cruda e notevolissima prova d'esordio di Patrick deWitt. Il locale di Hollywood dove lavora si riempie

ogni sera di habitué. Lui ne è irretito. Ascolta le loro biascicate e sconnesse confidenze e prende appunti. È convinto che,

in quelle vite destinate alla deriva, sia nascosto materiale per un buon romanzo. Peccato che, a forza di prendere appunti,

il giovane incominci a ingollare più alcol di quello che mesce, diventando lui stesso materiale per un romanzo che non vedrà

mai la luce.
Ma è davvero questa la più logica delle conclusioni? Il legame che unisce bottiglia e letteratura è strettissimo e di vecchia

data, soprattutto quando si tratta di autori d'oltreoceano. A chi gli rimproverava le sue inclinazioni etiliche, Sinclair

Lewis ribatteva: "Nominatemi cinque scrittori, dai tempi di Poe, che non siano morti di alcolismo". La sfida fu raccolta nel

1988 dallo psichiatra Donald W. Goodwin, che passò al vaglio una serie di biografie. Scoprì che, dei sette americani fino

allora insigniti del Nobel, ben quattro - Eugene O'Neill, William Faulkner, Ernest Hemingway e lo stesso Sinclair Lewis -

erano senza dubbio alcolisti. Un quinto, John Steinbeck, lo era quasi certamente stato.
Cinque su sette. Ovverosia il 71 per cento. Malgrado il campione fosse a dir poco ristretto, Goodwin si sentì autorizzato a

concludere che nessuna categoria vanta una percentuale tanto alta di ubriaconi. C'era poi il mito. C'erano i tre Martini che

Hemingway si scolava prima dei pasti, regolarmente innaffiati da sei bottiglie di vino rosso. C'era la prima sbronza di birra

che Jack London si prese alla tenera età di cinque anni. C'erano Truman Capote, Francis Scott Fitzgerald, Raymond Carver,

Dorothy Parker, Richard Yates e naturalmente Charles Bukowski.
E cosa dire dei romanzi in cui il bere è esaltato alla maniera di un centro di gravità permanente? Cosa dire di Cronache del

rum di Hunter S. Thompson dal quale Johnny Depp sta traendo un film? O di Via da Las Vegas dove John O'Brien confessa il

tremendo proposito di lasciarsi morire d'alcol? E vogliamo forse dimenticare che uno fra i massimi capolavori del secolo

scorso, Sotto il vulcano, è stato definito dal suo autore una "Divina Commedia ubriaca"? Va bene, Malcolm Lowry americano non

era, ma sempre in inglese scriveva.
C'è poi il conforto di altri esperti. Anita Stevens, anche lei psichiatra, afferma che "il vizio può prenderlo chiunque, ma

gli scrittori sembrano particolarmente predisposti perché l'isolamento in cui lavorano induce a bere". Quanto all'ancor più

spiccata predisposizione degli americani, George Simenon aveva un'interessante teoria. I bevitori si dividerebbero in due

categorie: il tipo americano, che predica l'astensione ma finisce puntualmente con l'eccedere, e il tipo francese, che ad

astenersi non ci pensa affatto, ma non eccede mai.
In effetti, Edgar Allan Poe, capostipite dei grandi bevitori d'America, cercava disperatamente di contenersi. Più che un

alcolista in senso stretto era un bevitore compulsivo. Il suo problema era la scarsa tolleranza: gli bastava pochissimo per

perdere il senno. Una volta varcato l'effimero confine del primo bicchiere, il passo che lo separava dall'abisso era breve.

Astenersi del tutto gli era impossibile. "Il mio temperamento sensibile" diceva "non mi permette di sopportare emozioni che,

per altri, sono accettabili e ordinarie".
Hemingway si giustificava con lo stesso argomento, seppure condito di sfrontata protervia: "Un uomo intelligente è costretto

a ubriacarsi per via del tempo che deve passare in compagnia di idioti". Non a caso la più ricorrente fra le scuse, cui gli

alcolisti sono soliti appellarsi, porta il nome di "Difesa Hemingway". È stata battezzata così da Stephen King, che l'ha

riassunta nei seguenti termini: "Sono uno scrittore, dunque una persona molto sensibile, ma sono anche un uomo, e i veri

uomini non cedono alla loro sensibilità perché è roba da ometti. Pertanto bevo. Come potrei altrimenti affrontare l'orrore

esistenziale e continuare a lavorare?".
Ecco una bella domanda: come? Gli scrittori tendono alla monomania e alla paranoia. Avversano le critiche. Temono il

famigerato blocco dello scrittore. A ben guardare, il fallimento è la quintessenza della letteratura, per questo anche gli

autori baciati dal successo ne sono ossessionati. Simenon trovò la fortuna da giovanissimo, nondimeno i protagonisti dei suoi

romanzi sono spesso dei disgraziati che mandano sconsideratamente a rotoli la propria vita. Può dunque darsi che una società

come quella americana, che ha fatto dell'affermazione individuale il sogno della nazione, abbia reso più esposti i suoi

scrittori allo spettro del fallimento e dunque al bere?
King non ne è molto convinto: "L'idea che lo sforzo creativo e le sostanze che alterano la mente siano strettamente legati è

una delle grandi mistificazioni pop-intellettuali del nostro tempo". In altre parole, molti scrittori bevono semplicemente

perché è quello che vogliono. "Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli.

Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri

all'alcolismo e agli stupefacenti, e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada".