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Centro Cefalee Università di Torino: ricerca sul legame tra mal di testa e consumo di alcol

Centro Cefalee Università di Torino: ricerca sul legame tra mal di testa e consumo di alcol

Due geni mutati rendono più sensibili al bere, favorendo emicrania o cefalea: studio del Centro Cefalee Università di Torino
Per alcuni, alcol è sinonimo di mal di testa. Qualunque liquore bevano, anche in minime quantità, sono subito vittima di

emicrania o cefalea a grappolo. Tale fenomeno è dovuta a due varianti del DNA. Lo afferma uno studio guidato dal dottor

Lorenzo Pinessi (direttore del Centro Cefalee dell'Università di Torino) e pubblicato qualche tempo fa dalla rivista

"Headache".
La squadra del dottor Pinessi è partita da un dato di fatto organico: l'alcol è una sostanza tossica che, dopo l'ingestione,

deve essere rapidamente metabolizzata per evitare danni all'organismo. A tale scopo, il corpo umano utilizza l'alcol

deidrogenasi e l'aldeide deidrogenasi, 2 enzimi contenuti nel fegato.
Inoltre, l'ispirazione è arrivata da una ricerca, contemporanea alla loro. Quest'ultima, ad opera dell'Università di Madrid,

ha dimostrato che coloro che riferivano attacchi emicranici correlati all'uso di bevande alcoliche avevano una particolare

variante del gene che codifica per l'alcol deidrogenasi 2 (ADH2)
Basandosi su questo, Pinessi ed i suoi compagni hanno lavorato con 110 volontari, tutti affetti da cefalea a grappolo,

malattia caratterizzata da fasi attive (il grappolo, in cui il paziente ha numerosissime crisi di cefalea) alternate a fasi

di remissione. Gli studiosi hanno così scoperto che nella fase-grappolo l'assunzione anche di modeste quantità di alcol è in

grado di scatenare violentissime crisi di cefalea, ma nella fase di remissione il fenomeno scompare.
Spiega il dottor Pinessi: "Studiando l'alcol deidrogenasi 4 (ADH4), un altro dei geni che regolano il metabolismo dell'alcol,

ho identificato una variante genica che si associa in modo significativo alla cefalea a grappolo. I portatori di questa

variante genica hanno un rischio significativamente superiore di sviluppare la malattia".
Elisabetta Fezzi