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Dipendenza sana, dipendenza patologica (parte seconda)

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Dipendenza sana, dipendenza patologica.

Patologia del vuoto e dipendenza patologica

Le persone che manifestano dipendenze patologiche combattono contro un senso di vuoto troppo angosciante per poter essere riconosciuto ed espresso; quello che viene avvertito è piuttosto un bisogno pressante che li assorbe completamente, determinando una ricerca di soddisfazione urgente e compulsiva.

Oggi, le dipendenze patologiche vengono designate sempre più spesso come addictions, termine che  contiene il riferimento ad uno stato di schiavitù, non necessariamente da una sostanza, come classicamente indica il termine di dipendenza, ma da qualunque cosa rappresenti un sostituto d’oggetto concreto, privo di spessore simbolico (droga, cibo, alcol, ma anche sesso, gioco d’azzardo, Internet…). Il bisogno, concreto, sensoriale, coattivo la fa da padrone, occupando tutto lo spazio mentale del soggetto. Al di là delle forme variegate ed eterogenee che può assumere  ciò che la caratterizza la dipendenza patologica non è il suo oggetto ma le modalità relazionali che vincolano il soggetto al suo oggetto di dipendenza, sia esso una sostanza, un’attività o una persona.

Le dipendenze patologiche configurano una schiavitù non solo nei confronti dell’oggetto dell’addiction ma anche nei confronti di una parte di sé che ne tiene in scacco altre. L’Io ideale primitivo richiede l’impossibile al Sé,  costretto ad identificarsi con l’aggressore, cercandone la protezione in uno stato di sottomessa dipendenza che tiene in scacco i desideri libidici e relazionali (Rosenfeld). (ACV)

Elementi ubiquitari nelle dipendenza e patologiche sono la precarietà del senso di sé; la labilità dei confini identitari; la ricerca di una fusionalità che elimini ogni differenza e alterità, interna ed esterna; la carenza o mancanza di capacità introspettive; l’opacità del mondo interno; carenza di capacità di modulazione delle emozioni. Disturbi di mentalizzazione, difficoltà di introiezione e di identificazione matura, elementi di grandiosità scarsamente integrati, predominio della sensorialità sull’affettività e sulle emozioni, impulsività e ricorso all’agito sono altrettanti elementi che caratterizzano il funzionamento mentale dei cosiddetti addicted. L’elemento ricorrente è la ricerca compulsiva di  “sostituti” d’oggetto concreti (non rappresentano l’oggetto ma sono vissuti come se fossero proprio l’oggetto del bisogno) cui attaccarsi per tacitare l’angoscia di non esistere e consistere e di sprofondare in un gorgo sempre più svuotante. Paradossalmente, la dipendenza da questi oggetti e pervicacemente denegata (posso smettere quando voglio).  Una conseguenza di questo funzionamento mentale è uno specifico deficit nella capacità di scansione temporale, che comporta una dilatazione del presente, fino ad assorbire in sé passato e futuro, e che rende impossibile sia la memoria del passato che la progettazione del futuro.

Con le capacità simboliche, risulta compromessa anche l’area intermedia, transizionale, nucleo fondamentale di un Sé sufficientemente coeso, capacedi attuare scambi creativi con l’altro senza che si mobilitino eccessive angosce di invasione e/o di annientamento, che determinano inevitabilmente chiusure e irrigidimenti difensivi.

Se l’area intermedia è compromessa, come accade quando non sono state introiettate funzioni materne fondamentali quali la capacità di reverie e la funzione paraeccitatoria,  non possono svilupparsi né la fiducia di base -   fondamento sia di una buona autostima – né la capacità di autoregolazione, che consente di modulare le emozioni. L’attaccamento all’oggettorimane sensoriale e concreto, e rimane deficitaria la capacità di riconoscere la figura materna come altro da sé, tollerando lo scarto creato dalla separatezza. La capacità di tollerare l’alterità si sviluppa sulla traccia inconscia lasciata dalla madre come presenza capace sia di trasformare uno stato di disagio in uno stato di benessere che di aiutare il bambino a contenere e sopportare uno stato di disagio, conferendo ad esso un nome e un senso che lo rendano più tollerabile.   Se la capacità di sopportare alterità e frustrazione non si è sufficientemente formata e stabilizzata durante l’infanzia, la percezione degli oggetti esterni sarà fondata su un senso di mancanza e di vuoto, che non potrà che generare relazioni fondate sulla necessità di manipolare e controllare l’oggetto, base di future dipendenze patologiche. Le vie brevi si sostituiscono allora al travaglio elaborativo,  il sentire  al pensare, le sperimentazioni senza progettualità (“le storie”) alle  relazioni, il contatto alla conoscenza e la fusionalità indifferenziata all’intimità nella differenziazione.  L’oggetto non può essere desiderato, sognato o incontrato, ma deve essere posseduto e consumato compulsivamente, in un presente continuo che si dilata fino ad ingoiare il passato e il futuro e che non consente né memoria né elaborazione. È la stessa dimensione stessa del tempo a collassare. Risulta compromessa la possibilità di incontrare se stesso e l’Altro, in un’esperienza autentica e significativa, suscettibile di fornire un senso di pienezza. Se manca lo spazio interno e le capacità contenitive non sono sufficientemente sviluppate, viene meno la fiducia su cui si basano speranza e progettualità e l’angoscia, non trovando vie elaborative, viene evacuata nell’agito prima ancora di poter essere mentalizzata.  Senso di vuoto e mancanza di senso
subentrano così alla percezione confusa, e subito evacuata, di un sé infantile carico di “spaventosi” bisogni che spaventano, proprio per l’incapacità di modularli (ACV). C’è allora l’assoluto bisogno di attaccarsi ad un oggetto concreto, che garantisca una consistenza e /o un rifornimento che non può che rivelarsi ogni volta illusorio.

Il possesso prende il posto della relazione, il dominio quello dell’incontro in un circolo vizioso in cui il controllo onnipotente tende a sostenere un’autostima non modulata, a cementare un Sé fragile e grandioso al tempo stesso, utilizzando il sostituto d’oggetto come protesi di un senso di sé svuotato, come feticcio nella costruzione di un’immagine illusoria di sé, come un esoscheletro che copra le falle identitarie e i fallimenti del processo di soggettivazione.


Che fare?

Anche se il tema della terapia delle dipendenze patologiche esula dall’intento di questa comunicazione,   vorrei comunque accennare a qualche punto che considero essenziali.

Prima di tutto, poiché il nucleo delle dipendenze patologiche è rappresentato da una dipendenza impossibile, la psicoterapia non mi sembra possa costituire una risposta adeguata, per lo meno in prima battuta, perché implica proprio ciò che ancora non è possibile, un investimento sufficientemente fiducioso in una relazione con un oggetto affettivamente significativo.

Può invece costituire una risorsa una struttura pubblica che possa fornire accoglienza senza cimentare troppo precocemente in una relazione duale chi ancora non può tollerarla. Per funzionare come un porto sicuro, una struttura di accoglienza deve poter funzionare  in maniera sufficientemente integrata. Da questo punto di vista,  la psicoanalisi può fornire agli operatori impegnati in prima linea significativi strumenti di comprensione e di elaborazione delle dinamiche delle addictions. La frammentazione  della storia e del vissuto dei pazienti, gli
innumerevoli agiti, i comportamenti distruttivi auto o eterodiretti, gli interventi disorientanti e imprevedibili dell’ambiente familiare, che determinano rotture e  riassestamenti aleatori, cimentano duramente la tenuta degli operatori e la loro capacità di mantenere viva la fiducia e la speranza. Gli strumenti psicoanalitici possono facilitare la costituzione tra gli operatori di un setting mentale condiviso  che, col suo stesso esistere, dà vita ad un contenimento pensante, che aiuta a tollerare la frustrazione, lo scarto temporale, l’impossibilità di una soluzione immediata al bisogno angoscioso; se i curanti vengono aiutati a tollerare la loro personale frustrazione, il senso di impotenza e la rabbia che questi pazienti suscitano e a sopportare i tempi inevitabilmente molto lunghi che una cura richiede, vengono ridotti da una parte i rischi di agiti collusivi e di pericolose frammentazioni e scissioni all’interno del loro stesso gruppo, dall’altra la loro stessa sofferenza.

Da quanto detto finora, è evidente che la terapia delle dipendenze patologiche non può costituire un percorso né semplice né breve, ma deve fondarsi sulla duplice via del contenimento, indispensabile per fornire al soggetto quei limiti e quei confini che non ha potuto strutturare a tempo debito, e di una accoglienza che possa dare un senso all’angoscia e una speranza a chi ne è sopraffatto, (ri)attivando  funzioni
autoriflessive e narrative che potranno, in un secondo tempo anche sfociare in una psicoterapia che rimetta in moto processi di soggettivizzazione bloccati o interrotti.

 

Tra individuale e gruppale.

Le enormi trasformazioni culturali e sociali da cui è stata attraversata la nostra società negli ultimi decenni si ripercuotono inevitabilmente sulla vita psichica (Kaes, 1994), dato che è a partire dall’Altro, dai legami intersoggettivi primari, che si costituisce, fin dall’inizio,  la realtà psichica individuale. Per questo, l’identità individuale, partendo da modelli identificatori plurimi, non può che essere intrinsecamente singolare e plurale al tempo stesso (Kaes, 2007).

L’incrinarsi di valori fino a qualche decennio fa solidamente condivisi ha un’inevitabile ricaduta sui processi identificatori che presiedono alla costituzione dell’identità individuale, che diventano più labili e indefiniti. Il fatto che bambini e  adolescenti siano sempre più spesso confrontati con famiglie diluite e rarefatte e con padri e madri dai ruoli sempre meno differenziati e definiti comporta come conseguenza una certa dispersione identificatoria, poiché la graduale perdita di autorevolezza da parte dei genitori e di coloro che li
rappresentano va di pari passo con la diminuzione del loro potenziale in termini identificatori (Cahn, 1998). A sua volta, la disorganizzazione dei tradizionali modelli identitari, oggi sempre più plurimi, incerti e frammentari, ricade inevitabilmente sulla formazione del Sé attraverso i processi  identificatori.

La crescente diffusione di disturbi correlati a problematiche narcisistiche e identitarie moltiplica il numero dei genitori in difficoltà nel soddisfare i bisogni narcisistici dei figli (sentirsi  pensati, rispecchiati e compresi) e nel fornire loro il contenimento e la reverie necessari per una buona strutturazione di un sé coeso; l’iperinvestimento narcisistico dei bambini da parte dei genitori e il bisogno di eludere i conflitti portano genitori fragili sul piano narcisistico a trattare i desideri dei loro figli come  bisogni improcrastinabili.
Essi abdicano così alla fondamentale funzione di porre regole e limiti  contenitivi, fornendo  quel  dosaggio ottimale di frustrazioni che consente la formazione di uno spazio mentale in cui  possa strutturarsi un vero desiderio (Gaddini, 1984).   Con la loro assenza (spesso più mentale che fisica)  e con le risposte “concrete” che forniscono ai bisogni dei figli, riempiti di oggetti, stimoli e attività da consumare
velocemente senza approntare per converso adeguati spazi “digestivi”,  i genitori ne sostengono l’onnipotenza, ostacolando la strutturazione di limiti interni, l’evoluzione del narcisismo primitivo, le capacità di mentalizzazione e lo sviluppo delle funzioni di simbolizzazione (Ruggiero, 2009).

In questo contesto, è più difficile che l’adolescente possa trovare nello sguardo dei genitori  rappresentazioni di sé che lo sostengano nel percorso verso la soggettivazione. Al contrario, capita sempre più spesso che i genitori non riescano a vedere che se stessi nei figli e che cerchino nel loro sguardo un supporto per un equilibrio narcisistico precario. Adulti impegnati in difficoltà identitarie saranno inevitabilmente in difficoltà  nel fornire agli adolescenti una cornice simbolica che li  sostenga nell’attraversamento del confine che
separa (e contemporaneamente unisce) l’ordine simbolico del mondo infantile e quello della soggettività adulta, separata, differenziata. A loro volta, gli adolescenti che non trovano negli occhi degli adulti uno specchio per il proprio sé in trasformazione si arenano in difficoltà rappresentative e rappresentazionali che li sospingono verso comportamenti evacuativi e/o verso dipendenze compulsive.

 

Infiltrazioni adolescenziali nella Società adulta

La perdita dei valori di riferimento tradizionali, la latitanza sempre maggiore della funzione paterna e delle strutture superegoiche, la diffusione identitaria, il crescente sfumare delle fondamentali differenze del crocevia edipico (tra bambino e adulto e tra maschio e femmina), l’espandersi di aree di ambiguità sempre più ampie (tra il vero e falso, fra l’immagine e la realtà, tra l’essere e l’apparire), la fragilità dei legami e l’aumento di modalità agite nell’affrontare le tensioni interne, sono tutti fattori che contribuiscono a creare un senso di disorientamento e di incertezza che ha una ricaduta drammatica nell’impossibilità degli adulti di contenere adeguatamente le angosce identitarie degli adolescenti (Ruggiero, 2008).

Pervasa da difficoltà a comprendere e contenere i suoi stessi movimenti di trasformazione, tanto più rapidi quanto meno pensati, la cultura attuale appare, nel suo complesso, poco attrezzata a sostenere il processo adolescenziale, proprio per la diffusa infiltrazione di elementi adolescenziali che  si configurano come fattori cronici di non contenimento per gli adolescenti (Levy, 2007).

 Così la Società adulta, sempre meno incline a confrontarsi con l’assenza  (Badoni, 2009), quasi allergica nei confronti delle trasformazioni che il passaggio del tempo produce e degli inevitabili lutti con cui ci confronta e pervasa da un consumismo vorace, tende a contrabbandare come normali certe caratteristiche additive nel rapporto con gli oggetti di consumo (basti pensare alla bottiglietta d’acqua che, con le più svariate razionalizzazioni,  molti adulti  portano con sé ovunque e a cui si attaccano periodicamente come se fosse un biberon) utilizzati – in modo conformistico e indifferenziato, come fonti di una “sicurezza” fondata sul possesso di oggetti svuotati di ogni spessore simbolico (shopping compulsivo). Non di rado, l’acquisizione, il possesso diventano fine a se stessi, in un circolo vizioso di svuotamento e  riempimento sensoriale ripetuto all’infinito.

La crescente dilatazione del presente fino ad occupare gran parte dello spazio mentale, rischia di occludere  sia la ricchezza insita nella memoria del passato che la tensione vitale racchiusa nella progettualità: tutto e subito o nulla mai! Un aspetto non secondario di questo sviluppo ipertrofico del presente è costituito dall’allentarsi del legame verticale tra le generazioni a favore dello sviluppo di legami orizzontali tra coetanei, a sottolineare che solo l’età presente, il momento presente, sono emotivamente significativi.   Life is now! Anche nella comunicazione, la velocità – anzi, l’istantaneità – ha preso il posto della profondità: dilagano contatti  rapidi e superficiali, caratterizzati da un lessico impoverito e spersonalizzato: sms, chat, twit… rivelano, sotto la loro “modernità”, un bisogno compulsivo di contatto permanente, di carburante narcisistico grezzo e a basso costo. Non sono i nuovi mezzi tecnologici a costituire un problema ma l’uso tossicomanico, senza limite, che ne viene fatto.

Così, nella  Società attuale è che, mentre si vanno diffondendo sempre di più  comportamenti a carattere compulsivo (dipendenze non da droga), diventa sempre più sfumato il limite tra patologia e aree di cosiddetta normalità. Si riduce progressivamente la soglia qualitativa e quantitativa che divide le cosiddette nuove dipendenze da modalità esistenziali oggi sempre più diffuse, caratterizzate da depressione strisciante, difficoltà di investimento affettivo profondo, carenza di autonomia e progettualità personale, iperattività, consumismo conformistico, appiattimento, angoscia verso le differenze individuali, compulsioni multiple. Questa crescente infiltrazione di caratteristiche adolescenziali contribuisce alla graduale dissolvenza della differenziazione e dei confini basilari del crocevia edipico – tra adulto e bambino, tra maschio e femmina – determinando “nuove forme di psicopatologia della vita quotidiana” che rappresentano una vera e propria patologia diffusiva del desiderio e della umana capacità di desiderare (Vigneri, 2008), in cui il desiderio regredisce ad un appetito divorante e coattivo. Oggi sono proprio i limiti (tra sé e l’altro, tra pensare e agire, tra interno esterno, tra reale e virtuale) che vanno sempre più sfumando,  sia a livello individuale che socio- culturale, in una indifferenziazione sempre più diffusa e in una crescente ambiguità (Argentieri, ).