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Dipendenza sana, dipendenza patologica (prima parte)

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Dipendenza sana, dipendenza patologica.

Irene Ruggiero
Il concetto di dipendenza spazia dalla dipendenza sana che favorisce la crescita alla dipendenza patologica, che la ostacola.

La dipendenza sana, fondamento e matrice dell'identità, si costruisce a partire dai primissimi scambi corporeo-affettivi tra madre e bambino. La prematurità dell'infante costituisce un dato biologico imprescindibile per comprenderne lo sviluppo: la sua inermità e impotenza lo costringono ad una prolungata dipendenza dalle persone che lo accudiscono - in primo luogo la madre - garanti della sua sopravvivenza fisica e psichica. Questa protratta dipendenza dall'oggetto di amore costituisce una condizione imprescindibile per lo sviluppo della capacità adulta di dipendere da se stesso, di autoregolarsi e di nutrirsi di sé, caratteristiche di un Sé integrato, capace di tollerare l'ambivalenza, inevitabile ingrediente di qualsiasi relazione affettiva significativa. Solo chi ha superato gli scogli dei conflitti di dipendenza e ha sviluppato un senso di sé integrato e coeso è capace di dipendere in modo sano dai propri oggetti d'amore, sentendosene arricchito più che minacciato. Paradossalmente, il contrario della dipendenza non è l'indipendenza, bensì la dipendenza matura.


Le concezioni psicoanalitiche che radicano la nascita e lo sviluppo della mente in un ambito relazionale fin dalla nascita (nelle quali mi riconosco) valorizzano l'importanza dell'ambiente nella strutturazione del Sé e nei suoi fallimenti e sottolineano il ruolo patogeno delle carenze, degli eccessi e dell'incoerenza dell'oggetto nel determinare la qualità della relazione di dipendenza che il bambino sviluppa nei confronti degli oggetti primari e quindi nell'evoluzione del suo narcisismo primitivo, base della futura integrazione del suo Sé.


La mente umana non si sviluppa infatti solo attraverso un processo maturativo interno ma anche a partire dall'esterno, dalla mente di coloro che si prendono cura dell'infante, in primo luogo la madre. La capacità di pensare si sviluppa e si espande all'interno di una relazione affettiva, nell'incontro tra la sensorialità grezza del bambino (impressioni sensoriali ancora prive di qualità psichiche) e la capacità di reverie (Bion) della madre, che -accogliendo questi aspetti confusi e dunque angosciosi e dando loro un primo senso attraverso una funzione organizzante - opera un progressivo processo di bonifica (Fornari, ) e di alfabetizzazione (Ferro, 2008) delle prime proto-sensazioni e proto-emozioni del bambino, avviandole verso la mentalizzazione.


La capacità di rispecchiamento della madre gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di un sano investimento narcisistico del Sé, fondamento della sua coesione. E' infatti attraverso l'esperienza ripetuta di sentirsi pensato e contenuto nella mente della madre come un oggetto pensante che il bambino può strutturare uno spazio interno in cui siamo contenuti e rappresentati emozioni, fantasie corporee, angosce e pensieri. Senza il contenimento e il rispecchiamento materno, non si struttura nel bambino quello spazio interno, intermedio tra realtà e sogno, che consente il fondamentale passaggio che, attraverso la reverie, porta dal sensoriale all'emotivo e dal concreto al simbolico, ponendo le basi per uno sviluppo adeguato del Sé e del senso di sé. Anche in seguito, nelle successive fasi maturative, il rispecchiamento degli "oggetti-sé" (Kohut) costituirà un fondamentale supporto dell'investimento narcisistico del Sé.


Se la madre, invece di rispecchiare il lattante e riflettergli se stesso, gli mostra un proprio stato d'animo, la propria angoscia o le proprie difese da essa, il lattante guarda ma invece di veder stesso, percepisce la madre: con le parole di Winnicott, "la percezione prende allora il posto di ciò che avrebbe potuto essere uno scambio significativo con il mondo.." e "il lattante non guarderà se non per percepire, come una difesa". Invece che libertà di sognare e di scoprire, fiducia, curiosità e apertura verso il mondo, si struttureranno apprensione e bisogno di sviluppare capacità percettive che consentano di predire l'umore dell'oggetto e, ben presto, di influenzarlo e controllarlo.
Sono il padrone della mia anima, dice Nelson Mandela nel film Invictus. Per diventare indipendenti, capaci di fidarsi di sé e dei propri modelli introiettati interni (prima di tutto i genitori, e poi i successivi oggetti affettivamente significativi) occorre aver avuto una madre capace da una parte di accettare senza spaventarsi troppo la dipendenza reciproca tra lei e il neonato, dall'altra di riconoscere la realtà del suo bambino, discriminandola dalle proprie fantasie onnipotenti, dal proprio bambino immaginario interno. Una madre non troppo narcisista, dunque, capace di riconoscere e tollerare una certa quota di alterità senza angosce e difese eccessive.


Nella declinazione sana o patologica della dipendenza del bambino dai suoi oggetti giocano dunque un ruolo essenziale il contesto, familiare, ambientale e generazionale. Vi si incarna, fin dall'inizio, una storia che ha origini remote e che è intrisa delle modalità relazionali del padre, della famiglia e del gruppo sociale più allargato. La cultura condivisa dal nucleo familiare anima fantasmi che preesistono alla nascita dell'infante e che rimangono operanti per tutta la sua vita: nelle situazioni più felici, essi radicano il neonato in una storia generazionale e ne cementano l'appartenenza al gruppo familiare, mentre in quelle più patologiche costituiscono la base di mandati transgenerazionali, di identificazioni alienanti e di vincoli depersonalizzanti. La funzione del padre si rivela anch'essa cruciale sia nel proteggere la necessaria fusione tra la madre e il bambino che nel preservarli dal rischio che la fusione collassi nella confusione e nell'indifferenziazione. Se egli è presente nella realtà e nella mente della madre come Altro e nello stesso tempo come partner affidabile di una relazione personale e genitoriale significativa, garantisce con la sua stessa esistenza una qualche tridimensionalità e separatezza che fa si che la madre sia anche un po' altro e altrove. Questo è fondamentale, in quanto non si può concepire una dipendenza sana senza una qualche separatezza, che dovrebbe essere presente nella madre fin dall'inizio.


Il concetto di dipendenza appare così fin dall'inizio dialetticamente connesso con quello di narcisismo, in quanto imprescindibilmente connesso con il delicato passaggio che conduce l'infante a riconoscere l'esistenza e l'alterità dell'oggetto e, dunque, nei possibili fallimenti di questo processo, con quello di trauma. Quando le cose vanno bene, questo complesso processo esita nella distinzione di una sana capacità introiettiva, che rappresenta il fondamento della costituzione di un mondo interno sufficientemente stabile e coeso. Viceversa, i fallimenti di questo processo di sviluppo determinano quel senso di vuoto che costringe le persone più fragili a ricorrere alla dipendenza concreta da un oggetto esterno, proprio perché non si è costituito nel mondo interno un oggetto stabile da cui potere dipendere sanamente e da cui trarre fiducia in se stessi.


Infatti, perché un bambino possa svilupparsi in modo personale e creativo, è necessario che ci sia una madre capace di investimento, passione e di una sana curiosità (fondata su una certa separatezza); tutti affetti che testimoniano la dipendenza della madre dalla realtà del bambino e che, se non sono sufficientemente presenti, generano "aree di orfanità" (Busato Barbaglio, 2008).


Qualora questo supporto manchi o sia troppo carente, gli oggetti esterni concreti diventano imprescindibili come sostituti di ciò che non si è potuto formare adeguatamente all'interno: di conseguenza, diventa necessario iper-investire il mondo percettivo per poter mantenere, attraverso la sensorialità, quel collegamento con la realtà e quella consistenza che non può fondarsi su oggetti interni sufficientemente stabili. Si creano così dipendenze coercitive che ostacolano l'evoluzione del narcisismo primitivo e il riconoscimento dell'alterità dell'oggetto, sentita come troppo minacciosa per un sé che ha bisogno di ancorarsi ad un oggetto totalmente controllabile che svolga funzioni protesiche.


Un'altra funzione materna che gioca un ruolo fondamentale nell'evoluzione dalla dipendenza all'autonomia è quella para-eccitatoria, con cui la madre preserva da un eccesso di stimolazione il nascente spazio interno del suo bambino, svolgendo quelle funzioni di autoregolazione che saranno successivamente svolte dall'apparato psichico che prenderà, col tempo, il posto dei genitori, costituendosi come un filtro essenziale tra l'individuo e le fonti di eccitazione interne ed esterne. Il suo adeguato sviluppo consente all'individuo di gestire internamente il conflitto, di tollerare situazioni di tensione anche elevata senza essere costretto ad evacuarla attraverso l'agito o a ricorrere coattivamente ad un oggetto esterno per eliminarla.

 

Lo snodo adolescenziale.

Data la stretta relazione che sussiste tra narcisismo e dipendenza patologica, non ci meraviglieremo di trovare situazioni traumatiche e difetti relazionali e di sviluppo tra gli ingredienti basilari della patologia del vuoto e delle conseguenti dipendenze patologiche che in genere si sviluppano a partire dall'adolescenza.


Le relazioni primarie, le angosce che le attraversano e le difese mobilitate per affrontarle influenzano infatti profondamente la dotazione narcisistica di base e, con essa, il bagaglio con cui una persona giunge al crocevia edipico e all'adolescenza, fase di transizione cruciale per un saldo approdo nella maturità affettiva. È dunque inevitabile che le carenze nella coesione e nella strutturazione del Sé interferiscano nel processo adolescenziale, compromettendone la funzione evolutiva (Laufer, 1984).


Infatti, il processo adolescenziale cimenta tanto più profondamente le basi narcisistiche quanto più labili sono le rappresentazioni di sé e dell'oggetto edificate durante la latenza (Novelletto, 1986), accentuando negli adolescenti narcisisticamente più fragili sia la dipendenza dall'oggetto che l'impossibilità di tollerarla: infatti, quanto più le basi narcisistiche sono fragili (quanto meno l'equilibrio narcisistico è garantito da mezzi interni), tanto maggiore sarà la fame di oggetti esterni per rassicurarsi e completarsi (Jeammet, 1992); tuttavia, maggiore è il bisogno di dipendere da un oggetto esterno, più intollerabile risulta la dipendenza, avvertita come minaccia per un'identità fragile e poco coesa.


In adolescenza, i nodi irrisolti dell'infanzia vengono al pettine e ostacolano l'elaborazione dei fisiologici conflitti di dipendenza adolescenziali, ponendo le basi per la formazione di dipendenze patologiche negli adolescenti sprovvisti di oggetti interni stabili che li aiutino a modulare le angosce connesse alla separazione adolescenziale. Gli adolescenti troppo fragili per affrontare le angosce di annichilimento e di perdita di sé innescate dalle trasformazioni, dai rimaneggiamenti narcisistici e dai lutti connessi al transito adolescenziale, possono cercare "sicurezza" nella dipendenza coatta da oggetti esterni, sensoriali e concreti che possano dargli un'illusoria sensazione di pienezza, integrità e potenza: si pongono così le basi per processi circolari di illusione/crollo e di riempimento/svuotamento che, rimanendo nell'area dell'agito, si sottraggono all'elaborazione e all'evoluzione, ostacolando il processi di soggettivizzazione (Cahn, 1998) che, trovano il loro apice nell'adolescenza, in cui diventa centrale il dilemma tra appropriazione soggettiva di sé e del nuovo corpo sessuato (Laufer, 1984) e accettazione di identificazioni alienanti.


Anche in adolescenza, il ruolo dell'oggetto si rivela vitale e imprescindibile. Infatti se, con Cahn (2009, 27), pensiamo al processo di soggettivizzazione come ad un "movimento che fa di sé, a partire dall'altro, una realtà viva, esclusiva, che si dispiega [...] a partire da questa identificazione fondatrice", non possiamo non considerare cruciale la funzione dell'oggetto ambiente in tutti i disturbi della soggettualità (i cosiddetti disturbi narcisistici).


Il processo di soggettivizzazione risulta particolarmente difficile per ragazzi giunti alle soglie dell'adolescenza con un bagaglio narcisistico precario e che siano alle prese con genitori a loro volta narcisisticamente fragili, che non si lasciano "usare" (Winnicott, 1968) e che anzi cercano di colmare il loro difetto narcisistico utilizzando i figli come protesi. In queste situazioni, i legami perdono la loro fondamentale funzione di referenti identitari e degenerano in vincoli, interferendo profondamente con lo sviluppo dell'autonomia personale (Shine). I confini, sia a livello intrapsichico che interpersonale, si irrigidiscono e perdono la loro funzione di zona di elaborazione psichica (Racalbuto, ). Risulta ostacolata la formazione di un preconscio funzionale (che possa mediare adeguatamente fra gli stimoli e l'impulso ad agire) così come l'evoluzione dell'Io ideale in un Ideale dell'Io maturo: in alcuni adolescenti, che manifestano dipendenze compulsive, narcisismo e Io Ideale possono fondersi a danno dell'Io, in una negazione della realtà - a partire da quella del proprio corpo e dei suoi bisogni - sostenuta da un'illusione narcisistica onnipotente quasi delirante (Grumberger, ).


La dipendenza matura dagli oggetti d'amore costituisce dunque lo sbocco di un complesso e delicato processo di sviluppo identitario che oscilla tra appartenenza e differenziazione. Se l'apparato psichico dell'adolescente è ben funzionante, esso potrà mediare tra appartenenza e individuazione, assicurando un equilibrio tra la salvaguardia di una differenza minimale (necessaria al mantenimento dell'identità individuale) e la soddisfazione del bisogno di contatto e assimilazione con gli altri (Zucca Alessandrelli, 2008). E' così che, quando le cose vanno bene, l'individuo approda ad un'identità che si viene a costituire come unica e dotata di un senso soggettivo che conferisce un interno intimo sentimento di autenticità e pienezza.


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)