Droga, alcol e disoccupazione: la morte dei bianchi americani
Droga, alcol e disoccupazione: la morte dei bianchi americani
Fuori c’era la neve, e il freddo aveva ghiacciato il laghetto del Castleton Center di Windham, però Kim Walters aveva portato lo stesso sua madre e sua figlia a sentire Trump. Indossavano una maglietta disegnata con lo stile del manifesto «Hope» di Barack Obama, solo che sopra c’era la faccia arrabbiata di Donald che diceva: «Washington, you are fired!». Tre generazioni di donne della stessa famiglia, unite dall’angoscia: «Noi così non ce la facciamo più a vivere. Mia madre sognava un’esistenza migliore per me, ma io non credo di poter passare la stessa speranza a mia figlia. Non c’è lavoro, e quando c’è, quello che guadagni non basta per vivere. La gente è disperata e passa le giornate al pub, quando non va peggio».
Era l’11 gennaio del 2016, uno dei primi comizi elettorali di Trump, e l’impulso superficiale era stato quello di liquidare le signore Walters come il campione isolato di chi aveva perso il treno della globalizzazione e del benessere. Un anno e mezzo dopo, invece, scopriamo che erano l’avanguardia malintesa del senso di disperazione tra i bianchi della classe media americana, interpretato dal miliardario di New York per conquistare la Casa Bianca. «Death of despair», come l’ha definita il premio Nobel per l’economia Angus Deaton, la morte per disperazione che affligge gli ex privilegiati Usa. I bianchi abituati a supporre che i figli avrebbero vissuto una vita migliore dei padri, nella perpetua continuazione del sogno americano. Questa illusione è svanita, secondo gli studi che Deaton aveva cominciato con la collega Anne Case nel 2015, e ha completato con il rapporto «Mortality and morbidity in the 21st century», pubblicato il 23 marzo scorso dalla Brookings Institution.
Nel 1999 la mortalità tra i bianchi americani di età compresa fra 50 e 54 anni, con diploma di scuola superiore, era più bassa del 30% di quella degli afro americani: nel 2015 è diventata più alta del 30%. Dalla fine del secolo scorso, gli uomini e le donne bianche tra 45 e 54 anni d’età hanno vissuto un’impennata delle «death of despair», cioè le morti premature attribuite a droga, alcol, e suicidi. Basta leggere le cronache dei giornali, per trovare storie come quelle di Wesley e Mary Ann Landers, uccisa da una iniezione di eroina davanti al letto della figlia. Nell’ultimo decennio, in questo gruppo demografico sono morte 400.000 persone per overdose, 250.000 per alcolismo, e 400.000 per suicidio. «Il mio studio - ha detto Deaton - è la storia del collasso della classe lavoratrice bianca». Un circolo vizioso di disoccupazione, disperazione e morte.
La spiegazione più superficiale che viene data al fenomeno è economica: i redditi di questa categoria hanno smesso di aumentare da quasi venti anni, e la crisi economica del 2008 ha dato il colpo di grazia. Deaton e Case però non si sono accontentati: nello stesso periodo di tempo, infatti, anche le condizioni economiche di ispanici e neri sono peggiorate, ma la mortalità non è cresciuta in proporzione. Pure in Europa la crisi del 2008 ha fatto disastri e alimentato il populismo politico, ma nessuno ha dimostrato finora una correlazione diretta fra questo fenomeno e l’aumento delle overdose o dei suicidi tra i bianchi della classe media. Deve esserci qualcosa di specifico, dunque, che ha colpito gli americani. «Non sono andate giù - ha notato Deaton - solo le carriere, ma anche le prospettive dei loro matrimoni, e la possibilità di crescere i figli. Queste sono cose che portano alla disperazione».
L’ipotesi di Case e Deaton, quindi, è che il «cumulative disadvantage» nella vita, nell’occupazione, nei matrimoni, nel futuro dei figli, nella sanità, sia frutto di un peggioramento generale delle condizioni di entrata nel mondo del lavoro per i bianchi senza laurea, legate alla mancanza di istruzione e l’evoluzione della tecnologia. Dunque una crisi che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza, inclusi quelli morali, e ha le radici in un fenomeno storico di decadenza dell’intero gruppo demografico, che non si risolve in poco tempo con qualche decreto. Una «carneficina americana», come l’ha definita Trump nel discorso della sua Inauguration, che era cominciata nelle regioni più depresse del Sud o degli Appalachi, ma ormai ha contagiato anche il New England dei padri fondatori e l’intero paese.
Shannon Monnat, professore della Pennsylvania State University, ha cercato di dare un senso politico a questo disastro, e lo ha trovato facilmente nelle presidenziali del 2016. Nel New Hampshire, ad esempio, Trump ha preso più voti di Romney in 2.469 contee delle 3.106 colpite dalle «death of despair». Alla fine lo Stato lo ha vinto Hillary, ma per meno di 3.000 voti, e le contee passate da Obama ai repubblicani, come Coos, sono quelle con la più alta percentuale di morti per droga, alcol e suicidi.
In un’altra era, le signore della famiglia Walters sarebbero state elettrici naturali di Hillary: donne, della classe media lavoratrice, nel New England. Però il Partito democratico, o almeno la Clinton, non si sono accorti della loro disperazione. A Windham le morti per overdose sono raddoppiate negli ultimi tre anni, e quindi Kim ha pensato di giocarsi la sopravvivenza su Donald, che almeno prometteva di costruire un muro lungo il confine col Messico per bloccare i narcos. Il problema, secondo Deaton, è che i guai veri non si risolvono con la demagogia: «Le politiche di Trump sembrano disegnate perfettamente per danneggiare le persone che hanno votato per lui». E chissà come reagiranno, se svanirà anche questa illusione di raggirare la disperazione.