Educare a bere o educare a non bere?
Educare a bere o educare a non bere?
Articolo pubblicato su DALFAREALDIRE - Periodico di informazione e confornto sulle patologie da dipendenza a cura degli operatori dei Ser.T piemontesi
di Roberto Argenta
Nell'ambito delle attività di prevenzione dei problemi alcol correlati, ha un certo seguito l'orientamento che sostiene che
sia utile educare a un rapporto responsabile con gli alcolici, piuttosto che puntare alla totale sobrietà. Si sostiene cioè
che alcuni stili di consumo esercitino un ruolo di protezione nei confronti dei danni alcolcorrelati e quindi, vista la
massiccia presenza degli alcolici e la sostanziale impossibilità di evitarne la convivenza, tanto vale cercare di educare a
modalità meno rischiose del bere, anche per evitare di aggiungere delle suggestioni legate alla trasgressione, al gusto del
proibito ecc..
Con l'ovvia premessa che nessun tipo di approccio si adatta efficacemente a tutte le persone e a tutte le situazioni, ritengo
che nella maggior parte dei casi sia più utile proporre la completa sobrietà. L'idea di educare al bere si basa su almeno due
presupporti sbagliati: che il bere moderatamente non comporti dei pericoli e che la conoscenza riduca i rischi.
L'alcol è responsabile del 10% di tutti i tumori. La sua costante presenza trasmette un senso di normalità che limita una
valutazione oggettiva dei rischi. Nel considerare il rapporto tra alimenti e cancro, il semplice sospetto è quasi sempre
sufficiente ad allontanarci da sostanze che hanno un impatto sulla salute enormemente minore. Nel caso degli alcolici, pur
trovandoci di fronte a delle certezze tra un consumo moderato e lo sviluppo di alcuni tipi di cancro, la percezione di una
loro sostanziale inevitabilità inibisce atteggiamenti più prudenti.
Da un punto di vista scientifico, la difesa, o peggio ancora la promozione dell'uso di una sostanza sicuramente cancerogena è
francamente difficile da sostenere. Parlando di consumi moderati, potrebbe sembrare che ci si riferisca a situazione che
hanno un impatto tutto sommato marginale sulla salute complessiva della popolazione. Al contrario, secondo il paradosso della
prevenzione (G. Rose; Strategie della medicina preventiva. Ed. Il Pensiero Scientifico), per comportamenti molto diffusi,
come bere alcolici, la maggior parte degli eventi dannosi sono attribuibili alle persone che hanno comportamenti moderati,
non a coloro che eccedono. In pratica, i bevitori moderati, pur rischiando meno, contribuiscono maggiormente nel determinare
quelle patologie alcol correlate per le quali non esiste un valore di soglia, per l'ovvio motivo che appartengono a un gruppo
molto più numeroso. Per questa ragione, dal punto di vista epidemiologico, è importante dissuadere dal bere proprio i
bevitori moderati.
Un esempio concreto per chi non conosce il "paradosso della prevenzione": gli adolescenti sono coloro che rischiano di più
quando sono alla guida di un ciclomotore, ma la maggior parte degli incidenti ha come protagonisti gli adulti. (Il 50% di
questo tipo di incidenti riguarda persone al di sopra dei trent'anni). Gli adulti alla guida di un ciclomotore sono più
prudenti, ma sono molto più numerosi. Dato che il rischio non è zero per nessuno, è meglio che il casco sia obbligatorio per
tutti. Consigliare di bere moderatamente perché meno rischioso è come consigliare agli adulti di non mettere il casco perché
ci sono altri che rischiano di più, perché non usarlo ha qualche piccolo vantaggio o perché renderebbe più prudenti.
Veniamo ora all'altro aspetto: l'idea che alcuni stili di consumo e una cultura del bere
prevengano altre modalità di bere più rischiose.
Nel rapporto con le droghe, la cultura e le informazioni sono utili se finalizzate a starne lontano, se utilizzate per
conviverci diventano dei fattori di rischio. Il miglior esempio di questa apparente contraddizione è rappresentato dalle
categorie professionali che contano la più alta incidenza di fumatori: medici e giornalisti. (Chi ritiene che il nostro
patrimonio culturale ci difenda nel rapporto con le sostanze da abuso dovrebbe spiegare perché negli Stati Uniti i medici
fumatori sono solo il 2% contro il 34 dell'Italia). Chi fuma lo fa perché gli piace, gli aspetti razionali, come quelli
culturali, offrono delle giustificazioni al mantenere comportamenti piacevoli. Se a una persona che già fuma dessimo una
istruzione sul tabacco a livello di laurea in medicina, farebbe più fatica a smettere e rafforzeremmo la sua convivenza con
la sigaretta. Se ci rivolgessimo a un giovane che non fuma, avremmo qualche probabilità in più che l'informazione abbia un
esito positivo, a patto ovviamente che l'obbiettivo sia quello di tenerlo lontano dalle sigarette, non certo quello di
invitarlo a fumare moderatamente. Nei confronti delle sigarette abbiamo tutti chiaro che se invitassimo dei non fumatori a
fumare moderatamente o con determinare modalità, per alcuni di questi sarebbe la porta di accesso al fumare molto. Per gli
alcolici non può certo essere diverso, visto che una loro caratteristica, già a bassi dosaggi, è di disinibire. Per alcune
persone fermarsi a un consumo moderato è letteralmente impossibile.
Le attività di prevenzione acquistano significato soprattutto se idonee a tutelare queste persone. Il passaggio o meno dal
bere moderato a un bere ancora più problematico è dovuto ad aspetti soggettivi, come il rapporto con il piacere e il disagio,
all'apprezzare o meno uno stato alterato della coscienza, alla ricerca attraverso una sostanza esterna della soluzione ad
ansia e stress... Tutti aspetti difficilmente modificabili da un semplice intervento educativo. Per queste persone il bere
moderato non è in antitesi ad altre modalità di bere, ne è semplicemente la premessa.
Occorre, oltretutto, tenere presente che gli alcolici sono sovente la sostanza di accesso anche per le altre droghe. I
tossicodipendenti astemi sono piuttosto rari, come pure i non fumatori. Non bere e non fumare sono i migliori indicatori di
un basso rischio di tossicodipendenza. Sarebbe sufficiente questo dato da solo per rendere plausibile e per giustificare l'
educazione dei giovani alla sobrietà. Cercare di ridurre i rischi con l'educazione mettendola in rapporto con la cultura è
quindi un boomerang.
Il principio della ragione è al servizio del principio del piacere, non il contrario. La cultura, la conoscenza e i modelli
di comportamento rendono soggettivamente meno percepibile il rischio, modulandolo attraverso un falso senso di sicurezza.
Questo è anche il motivo per cui nelle culture "bagnate" possono risultare meno problemi alcol correlati. Il grado di
evidenza degli aspetti negativi del consumo di alcolici è mediato da fattori economici e culturali, sia nella percezione
soggettiva, sia nella loro rilevazione. Alcuni giornali omettono di riportare lo stato di ebbrezza in caso di incidente per
non "demonizzare" il bere, a un guidatore non viene fatta la multa per guida in stato di ebbrezza, nonostante la positività
all'etilometro, perché è il giorno del suo compleanno... e via dicendo. Secondo una sempre valida definizione, l'alcolista è
colui che beve più del proprio medico. La cultura alcolica alza la soglia di tolleranza ai problemi alcol correlati
rendendoli meno visibili.
La conoscenza degli alcolici favorisce la convivenza con essi, ma non solo non ne riduce la pericolosità, la accentua. Chi
lavora nell'alcologia può verificare che ristoratori, baristi e chi ha frequentato corsi per assaggiatori hanno più problemi
alcol correlati della media. La filosofia che sostiene l'educazione al bere si colloca a pieno titolo nella politica della
riduzione del danno. Dando per scontato che le alcune persone, in ogni caso usano alcolici, tanto vale che lo facciano nel
modo meno rischioso possibile. Esiste tuttavia una differenza sostanziale di approccio nei confronti degli alcolici rispetto
alle droghe illegali: la tempistica degli interventi. Nessuno proporrebbe un intervento di riduzione del danno a un
ragazzino alle prime esperienze con le droghe illegali, senza privilegiare prima proposte di
completo affrancamento dalle sostanze.
Anche ritenendo utile educare i giovani al bere, in ogni caso, non è logico presentarlo senza offrire alternative.
Tra l'altro, proporre l'astensione completa dagli alcolici è concettualmente ed emotivamente più semplice, evita di
confrontarsi con il "controllo", aspetto tutt'altro che secondario nel rapporto con le droghe.
L'obiezione più comune a questo approccio è che sembra non prendere in considerazione il concetto del "piacere". Visto che la
funzione del piacere prevale su quella della ragione, qualsiasi tentativo di proporre dei modelli di comportamento che non
abbiano una connotazione piacevole è destinato a vanificarsi.
Il principio del piacere vale, ovviamente, per tutti, ma per tutti si esprime attraverso l'uso di sostanze? Se proponiamo un
atteggiamento sobrio, ci scontriamo necessariamente con un bisogno che emergerà attraverso resistenze e rifiuti? Solitamente
ci si interroga sulle motivazione del bere, del fumare o dell'uso di altre sostanze. È altrettanto utile tuttavia chiedersi
perché molte persone non bevono, non fumano, ecc.. Se consideriamo il piacere un bisogno primario, le persone sobrie come lo
soddisfano? Ad esempio, il 75% degli adulti non fuma. Perché? Non certo perché sa che fa male, visto che quelli che più sanno
più fumano. Sono tutte persone che non sanno godersi la vita e che reprimono il primario bisogno del piacere? Per qualcuno è
anche possibile che sia così, ma alla maggior parte delle persone, ripeto alla maggior parte, semplicemente non piace fumare,
o per meglio dire, gli "piace" essere un non fumatore. Esiste un piacere nel bere nel fumare ecc., ma esiste anche un piacere
nella sobrietà. Il preferire l'uno o l'altro assomiglia alla differenza tra essere estroversi ed introversi. I primi si
rivolgono all'esterno di se stessi gli altri all'interno. Quindi, siamo tutti d'accordo che nel proporre dei modelli di
prevenzione sia importante considerare il concetto di piacere, ma è un errore ritenere che proporre la sobrietà significhi
non considerare questa dimensione. Proporre la sobrietà non significa togliere qualcosa, ma offrire qualcosa di diverso. I
primi timidi tentativi di offerta di feste analcoliche hanno sempre avuto un successo superiore alle aspettative degli stessi
organizzatori. In un aspetto soggettivo come il piacere, entrano in gioco ovviamente le preferenze personali degli operatori.
Anche se a qualcuno non piace sentirselo dire, non ci sono dubbi che il personale atteggiamento verso gli alcolici è la vera
discriminante nell'aderire all'una o all'altre "fazione". La soggettività del concetto di piacere è anche alla base di una
sorta di incomunicabilità tra chi propone l'uno o l'altro approccio. Tuttavia, se è vero che sui gusti è difficile disputare,
è altrettanto evidente che se non vogliamo limitarci a proporre il nostro personale stile di vita, dobbiamo cercare di capire
quando e a chi sia utile proporre la sobrietà e quando e a chi la convivenza con gli alcolici.
A quanti possiamo proporre la sobrietà? E quanti sono invece coloro per i quali il piacere del bere è da tenere in
considerazione? Secondo la relazione del ministro della Salute al Parlamento dello scorso anno, nel nostro Paese il 32% delle
persone è astemio, i bevitori regolari, coloro cioè che acquistano alcolici e bevono quotidianamente sono il 26%. La restante
parte sono bevitori occasionali, non ricercano cioè direttamente gli alcolici, ma seguono le opportunità che gli si
presentano. Per inciso, questo non significa che siano più moderati. Le occasioni per bere non mancano di certo. Esiste un
punto vendita o somministrazione di alcolici ogni duecento abitanti, molto più che per pane, zucchero o altro. Tutti
conosciamo la vasta gamma di occasioni in cui ci vengono offerti alcolici.
Il 26% di bevitori regolari è un dato simile al 25% degli adulti che fumano, non per caso. Come per il fumo, una parte smette
poi per scelta o per necessità. Rimane una sorta di zoccolo duro costituito dal quindici, diciotto per cento della
popolazione che, a mio avviso è la percentuale di persone per le quali i comportamenti edonistici sono una sorta di bisogno
primario irrinunciabile. Per chi lavora nelle tossicodipendenze non è difficile valutare quando ci si trova di fronte a
persone per le quali il piacere si esprime principalmente attraverso l'uso di sostanze. Ad esempio, contrariamente a quanto
accade alla maggior parte delle persone che quando sospendono di bere o usare sostanze riducono spontaneamente l'uso di
sigarette, questi "compensano" e si gratificano fumando di più.
I dati epidemiologici sembrano indicarci che solo per una parte minoritaria il bere soddisfa una sorta di bisogno
ineluttabile. Le spinte culturali a bere sono sostenute da una grande offerta e un'insistente pubblicità, oltre il novanta
per cento delle persone è convinto che bere moderatamente faccia bene alla salute. Dovremmo attenderci un consumo ancora
più diffuso, la maggior parte invece, avendone l'occasione, fa tranquillamente a meno degli alcolici.
Se partiamo dal presupposto che non bere è meglio che bere, quindi, possiamo proporre la sobrietà alla maggior parte delle
persone, senza il timore che ciò contrasti con bisogni insopprimibili. Soprattutto nei confronti dei giovani e dei
giovanissimi, la proposta prioritaria in ogni caso deve essere la sobrietà. Prima di tutto perché quella che comporta meno
rischi, secondariamente perché dare per scontato che sceglieranno di bere è un errore.
Molti sono spontaneamente refrattari all'uso degli alcolici, altri possono bere o meno a seconda delle opportunità. Le
occasioni di bere rappresentano una voce importantissima nel determinare le abitudini di buona parte della popolazione ed è
proprio su questo che bisogna intervenire, non certo però sostenendo la cultura alcolica. Affinché possano orientarsi nelle
proprie scelte, le persone dovrebbero avere, come minimo, le stesse opportunità di bere come di non bere, invece assistiamo a
una sostanziale negazione della libertà di non bere. Se si rifiuta un'offerta di alcolici ne viene chiesto il motivo, occorre
cioè giustificarsi. Questo non accade, ad esempio, nei confronti delle sigarette.
Scopo principale della prevenzione primaria non è insegnare a convivere con gli alcolici, ma offrire la possibilità di
sottrarsi a questa convivenza. Per arrivare a questo obbiettivo, il primo e più importante ostacolo da superare è proprio la
visione del bere come condizione "normale" e sempre piacevole. Si possono capire i motivi culturali ed economici che stanno
alla base delle pressioni al bere, è meno comprensibile che siano avallati da chi si occupa di prevenzione. La riduzione del
consumo di alcolici è la irrinunciabile "madre di tutte le battaglie" nella prevenzione dei problemi alcol correlati.
Difficile immaginare che possa essere perseguita utilizzando le stesse argomentazioni o addirittura le stesse iniziative dei
produttori. La proposta prioritaria, nell'ambito delle attività di prevenzione, deve essere la sobrietà.
Perché quella con meno rischi e perché è quella che si adatta alla maggior parte della popolazione. Soprattutto quando ci si
rivolge ai giovani o giovanissimi. Dare per scontato che per tutti bere sarà un piacere non è solo un errore statistico, ma
inserisce in una categoria a rischio persone che non lo sarebbero se potessero sperimentare altre opportunità.
I dati che vedono fumatori e bevitori come una minoranza si scontrano con il comune sentire che identifica il piacere con i
consumi edonistici. La cultura prevalente e le spinte al consumo influenzano i nostri bisogni e la loro percezione. Ciò che
serve è una modifica di questa cultura, non un adattamento a essa. Il vero salto di qualità alla prevenzione dei problemi
alcol correlati è riuscire a immaginare un mondo senza alcolici.
Non ricercare aggiustamenti con la speranza di spostare di qualche decimale la percentuale di rischio. Sono cinquemila anni
che l'uomo cerca di convivere con gli alcolici. Se ci fosse un modo per evitare i problemi alcol correlati qualcuno l'avrebbe
già trovato. Se invece questo modo non esiste, occorrere fare. un bilancio tra l'enorme mole di sofferenza causata dagli
alcolici e il piacere che alcune persone provano nel bere. Un così lungo periodo di sperimentazione ci permette di affermare
che la cultura alcolica è il problema, non la soluzione. I problemi non possono essere risolti rimanendo allo stesso
livello che li ha creati. Gli alcolici hanno causato e causano dieci volte tanto morti di tutte le guerre messe assieme,
guerre mondiali e olocausto compresi. Confidare su modelli di bere meno pericolosi è come ricercare armi migliori per fare la
guerra. Quando sta per iniziare una guerra chi è favorevole ci racconta che è inevitabile, ma che, con armi e strategie
intelligenti, non ci saranno abusi e vittime innocenti. Puntualmente poi questo non accade. Chi è favorevole al consumo di
alcolici ci racconta che la convivenza con essi è inevitabile e che con un loro uso intelligente non ci saranno abusi e
vittime innocenti. Puntualmente poi questo non accade. La soluzione sta in un diverso livello di consapevolezza. Così
come è preferibile usare il nostro impegno per evitare le guerre e non per costruire armi migliori, analogamente è meglio
impegnarsi per un'umanità senza alcolici, piuttosto che ricercare il modo migliore di bere.