Edwin Valero, pugile venezuelano morto suicida: troppo alcol e violenza
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Non poteva perdere, non poteva andare negli Stati Uniti, non poteva smettere di bere, non poteva stare tranquillo e vivere non gli riusciva semplice. Per Edwin Valero l'esistenza è sempre stata maledettamente complicata e quando ha capito di averla ingarbugliata troppo, ha deciso di suicidarsi, a 28 anni. In prigione, appeso a un cappio fatto con i suoi vestiti, giusto 24 ore dopo aver ucciso la moglie a coltellate.
Era un pugile venezuelano e non uno qualsiasi: El Inca, soprannome che richiama antenati precolombiani e lineamenti importanti solo che per lui era un vecchio sponsor, il nome di una pista da corsa che gli era finita sopra il giubbotto in una dei rari colpi di fortuna della sua gioventù. Abbandonato dal padre, affidato a parenti di terzo grado che avrebbero dovuto aiutare la madre, senza lavoro, a crescerlo. Come altri campioni di boxe era cresciuto per strada e metteva nei pugni il disperato bisogno di rivincita. Nel suo caso i conti dovevano già essere tornati da un pezzo: era imbattibile. Prima peso piuma, poi peso leggero, campione mondiale in entrambe le categorie con 27 incontri vinti per ko su 27 match disputati. Il successo al cubo. Picchiava duro, metteva paura e sosteneva di farlo per dimostrare che anche quelli venuti su senza soldi potevano farsi largo.
Era convinto che la sua personale filosofia fosse la stessa del presidente Hugo Chavez e si era tatuato quella faccia sul petto, impresso sopra una bandiera venezuelana con tanto di scritta «Venezuela de verdad». Un manifesto politico disegnato tra un muscolo e l'altro, «una missione sociale», motivava lui, un orrore per gli avversari e i promoter che consideravano quell'ostentazione: «Il peggior tatuaggio mai visto». Lui ne andava fiero: «Chavez ha dato la sua vita per il popolo, è stato preceduto da tanti disonesti, per questo ha un lavoro così difficile, ma un uomo come lui che dedica tutto questo tempo alla sua gente è da ammirare». Lo idolatrava ed era parte della sua cerchia, l'anno scorso era stato invitato dal presidente su un palco durante un comizio. «Ecco qua l'uomo che farebbe paura anche a Cassius Clay». In realtà gli esperti gli rimproveravano di aver sempre scelto avversari abbordabili e di vivere sopra le righe e sopra le regole proprio grazie all'influenza di Chavez. Nel 2001, mentre era negli Usa, si era spaccato la testa. Letteralmente, un incidente in moto a cui sembrava non potesse sopravvivere, ma Valero si era rimesso in piedi ed era tornato sul ring. Contro ogni logica. Aveva perso l'abilitazione a combattere in molti Paesi ed era uscito dal giro buono, quello che accetta sfide solo a Las Vegas o dovunque ci sia una borsa degna di nota. Proprio in uno dei suoi pellegrinaggi in cerca di permessi, in Texas, si era fatto pescare ubriaco e rissoso e da allora non era più riuscito a mettere piede in America. Ogni volta che c'era un incontro in ballo gli veniva negato il visto: «Una manovra contro Chavez», rispondeva lui che aveva sposato il ruolo di esiliato politico per essere d'aiuto al governo. Propaganda con i guantoni, il più forte che non trova avversari perché è costretto a difendere il titolo in Sudamerica, in Asia, lontano dal centro della mischia. Stava per passare di categoria, salire ai welter per poter incontrare Manny Pacquiao, il re delle Filippine in corsa per la carica di governatore. Altro idolo delle folle e dei diseredati, altro uomo-nazione che si è salvato dal teppismo e ha costruito un impero con la boxe. E l'alterego ideale perché con lui si poteva combattere a Manila.
La sfida veniva rimandata da quasi un anno, Valero faticava a raggiungere il peso giusto e non era mai pronto quando PacMan sceglieva i rivali, in più negli ultimi mesi aveva altro a cui pensare. Alcolizzato, sempre più sbandato, aveva aggredito la moglie spedendola al pronto soccorso, una, due, tre volte e lei non aveva mai sporto denuncia solo che El Inca sapeva mettersi nei guai da solo. Si era presentato in ospedale per riprendersi la consorte e aveva rissato con i medici. Si era indignato perché lui, il suo nome, il tatuaggio, l'amicizia con Chavez non bastavano come lasciapassare. Era finito davanti a un tribunale, condannato a sei mesi di riabilitazione.
Una pena facile che Valero non ha accettato. Niente obblighi per chi si è fatto largo da solo, per chi rappresenta «i figli deboli di una nazione destinata a crescere». Dopo meno di un mese ha lasciato la clinica, è entrato nell'albergo dove stava la moglie, è sceso ricoperto di sangue, come spesso gli capitava appena uscito dal ring, e nella hall ha detto: «Mia moglie è morta». Si è autodenunciato, ma la polizia non ha trovato l'arma del delitto, si è suicidato e quando lo hanno tirato giù era ancora vivo, solo che era tardi. Non aveva mai perso prima.