Giovani e alcol: l'ebbrezza ideologica della sobrietà obbligatoria
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Pochi giorni fa abbiamo pubblicato su Libertiamo un'interessante recensione del libro Mark Thornton, che illustra il funzionamento dell' "economia della proibizione" e ne spiega il fallimento, soprattutto sul versante dell'offerta. Ad analogo fallimento, sul versante della domanda, è condannato anche il "diritto della proibizione", la cui logica impone di arginare la diffusione delle droghe (anche di quelle legali) attraverso la progressiva restrizione degli spazi (fisici e giuridici) entro cui ne è consentito il consumo.
L'economia proibizionista istituisce un incentivo criminale alla produzione di droghe proibite. Il diritto proibizionista istituisce una sorta di incentivo politico alla produzione di norme inutili e declamatorie.
L'ordinanza con cui il comune di Milano ha proibito la detenzione e il consumo di alcolici per i minori di 16 anni appartiene a questa categoria, perché non si limita (ragionevolmente) a disciplinare in termini restrittivi il commercio degli alcolici e a sanzionarne gli abusi, ma arriva a surrogare, per via amministrativa, il ruolo educativo delle famiglie (i padri saranno multati se "daranno da bere" ai figli) e a disporre un divieto di consumo così assoluto da apparire irrealistico anche ai più zelanti sostenitori della linea dura. Il risultato, dunque, sarà che l'ordinanza verrà applicata in modo casuale e discrezionale o che, nella migliore delle ipotesi, non verrà per nulla applicata, sopravvivendo come "monumento" alla sensibilità morale della giunta meneghina. D'altra parte, se è vero, come dicono i sostenitori dell'ordinanza, che oltre un terzo degli under 12 ha avuto problemi di abuso, chi può ragionevolmente ritenere che la soluzione stia nell'impedire materialmente qualunque contatto tra gli alcolici e i minori di 16 anni? Un fallimento educativo di dimensioni così colossali può essere arginato dalla pedagogica sorveglianza dei "ghisa"?
Dal punto di vista formale, non si comprende come un fenomeno pure allarmante possa avere giustificato l'adozione di un ordinanza urgente che dovrebbe fondarsi su presupposti del tutto particolari, quali la presenza di un pericolo eccezionale, incombente e non diversamente arginabile per la salute e l'incolumità pubblica. Se la diffusione di alcune patologie da abuso (anche alimentare) o di alcuni comportamenti a rischio (non solo legati alle droghe) in fasce più o meno consistenti della popolazione divenisse il presupposto per l'emanazione disinvolta di ordinanze urgenti da parte del sindaco in veste di massima "autorità sanitaria", entreremmo, senza neppure accorgercene, in un regime che Antonio Martino ha già definito - e non per metafora - "nazi-salutista".
Dal punto di vista politico, non si possono neppure difendere provvedimenti di questa natura sostenendo che essi danno comunque un segnale, magari inutile, ma nobile e generoso di attenzione civile. Anche le politiche "di prevenzione" vanno giudicate dalle conseguenze e non dalle intenzioni. Non vanno apprezzate perché "vogliono" , ma perché "riescono" a prevenire comportamenti rischiosi, senza intollerabili fughe in avanti verso logiche da stato di polizia.
L' ampio e trasversale sostegno all'iniziativa dell'amministrazione milanese non ne dimostra la ragionevolezza, ma, al più, la popolarità. Che su questa materia (la "questione alcol" complessivamente intesa) le posizioni più popolari raramente siano le più coerenti ed efficaci non lo dimostra solo la vicenda dell'ordinanza milanese. Dalle norme cervellotiche che sospendono la patente di guida ai ciclisti ubriachi, alle proposte di proibire la guida dell'auto a chiunque abbia consumato alcolici (anche in quantità tale da non pregiudicare affatto, dal punto di vista pratico, il controllo del veicolo) sembra che il nostro paese sia impegnato ad esorcizzare una parte di sé attraverso misure tanto insensate quanto "esemplari", piuttosto che a porre concretamente rimedio ai molteplici problemi sociali e sanitari che sono connessi all'abuso di alcolici.
Non va certo sottovalutato il fatto che tra i giovani il consumo dell'alcol abbia perso qualunque cultura e misura e sia asservito ad una logica in cui socializzazione e evasione, auto-identificazione e "sballo", finiscono per coincidere. Che l'alcol non debba essere considerata una sorta di droga "buona", perché più tradizionale, ma riconosciuta come una sostanza d'abuso dagli effetti sociali e sanitari dirompenti non è solo giusto, ma sacrosanto. E non è certo male che la piega tutt'altro che promettente che stanno prendendo i rapporti tra giovani e alcol costringa a fare duramente i conti con il modo in cui la nostra società (e, da millenni, la nostra stessa civiltà) ha culturalmente trasfigurato gli effetti del "bere", fino a costruirvi attorno un vero e proprio sistema simbolico. E' però questa un'impresa culturale e civile complessa, che non giustifica un attivismo velleitario, un po' moralistico e un po' propagandistico. Dopo Milano, altri comuni sembrano intenzionati a percorrere questa strada. La parola d'ordine bipartisan sembra essere quella di fare comunque qualcosa, senza domandarsi se serva a qualcosa.