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Gli antidepressivi? Prescritti a tutti, ma non sempre efficaci

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VORREI ESSERE FELICE. SUBITO
Gli antidepressivi? Prescritti a tutti. Non sempre efficaci. Caricati di troppe aspettative


di Elisabetta Muritti DRepubblica


Circa il 10% della popolazione mondiale soffre di depressione. In Europa il malessere cresce del 20% all'anno Quante volte è definita depressiva una situazione che in realtà  è un'altra patologia. L'intervallo tra la prima assunzione del farmaco e l'inizio dei suoi effetti rappresenta il momento più difficile della cura, un intervallo in cui non si sa come intervenire.


Tutto cambia nei luccicanti anni 80, col Prozac, la star degli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Ssri), che alla sua azienda farmaceutica, la statunitense Eli Lilly, procura ben 40 milioni di consumatori nel mondo. Grazie al Prozac (fluoxetina), e ad altri Ssri come il Daparox, lo Zoloft, il Seropram, fino al nuovo Cipralex, la rivoluzione non scuote solo il farmaco, percepito subito come meno "dannoso", ma pure la malattia: la depressione diventa socialmente accettata, comodamente rintuzzabile, velocemente diagnosticabile, universalmente diffusa.


Magari pure creativa e radical chic, se pensiamo alla bella Elizabeth Wurtzel, che ci costruisce sopra, col bestseller Prozac Nation, una carriera di scrittrice impasticcata e irriverente. Sono passati 25 anni. E, più che l'antidepressivo, è la depressione stessa ad aver cambiato pelle. E’ più subdola, resistente, diffusa, misteriosa. Alleata della crisi, per niente smart.


Ecco i numeri. L'Organizzazione mondiale della sanità  le dà  la responsabilità  di circa 800 mila suicidi all'anno, per lo più in paesi o strati sociali poveri, soprattutto in Asia, e fra i giovani (i disturbi mentali globalmente pesano, dal punto di vista economico, come cancro, malattie cardiovascolari e diabete messi insieme, per un totale di 450 milioni di malati nel mondo). Il governo inglese ha calcolato che i suoi effetti invalidanti sul lavoro costano 12 miliardi di sterline ogni anno; o, dice una ricerca della London School of Economics, l'1% del Pil britannico. Pare che un italiano su 2 abbia comprato almeno una confezione di antidepressivi all'anno (nel 2011 le farmacie, da noi, hanno venduto 34,5 milioni di "pezzi" a carico del Sistema sanitario nazionale, senza contare le "ricette bianche"). L'Osservatorio nazionale sull'impiego dei medicinali, nel rapporto gennaio-settembre 2012, registra una contrazione della spesa per gli antidepressivi (dovuta all'uscita di brevetto di molte molecole) a fronte di una crescita dei loro consumi (gli Ssri si assestano sulle 27,3 dosi al giorno ogni mille abitanti). E dichiara che, dal 2004, il loro uso è salito del 4,5%, soprattutto grazie alle donne mature e/o anziane (gli episodi depressivi, però, sarebbero cresciuti di un terzo negli under 35).


Secondo l'Istituto superiore della sanità  gli italiani che riferiscono sintomi di depressione sono il 7% della popolazione (l'European Study on the Epidemiology of Mental Disorders, ESEMeD, sintetizza col dato di 1,5 milioni di adulti italiani malati di depressione maggiore), di cui solo la metà  avrebbe avuto il coraggio o la possibilità  di curarsi. Quanto agli Usa, un americano su 10 è sotto terapia farmacologica antidepressiva. In sintesi: circa il 10% della popolazione mondiale soffre di tale malattia, con punte annue di crescita europee pari al 20%, soprattutto in Svezia, Norvegia, Slovacchia, Islanda, Germania, Austria (i consumi più bassi in Olanda, Svizzera, Francia).


Ovvio, la ricerca della "medicina perfetta" non ha subito battute d'arresto, anzi, le case farmaceutiche sono scatenate, eccitate da un business sempre più appetitoso e planetario. Solo per citare, un mese fa è uscito sul mercato l'antidepressivo multimodale Brintellix (vortioxetina: al tempo stesso modulatore dell'attività  e inibitore della ricaptazione della serotonina); 4 anni fa s'è affacciato alla ribalta, applaudito come uno dei migliori farmaci del millennio, il Valdoxan (a base di argomelatina, agonista dei ricettori della melatonina); nel 2003 ecco il Cipralex (altro Ssri); nel 1993 l'Efexor, la cui venlafaxina "sposa" l'inibizione della ricaptazione sia della serotonina che della noradrenalina.


Ma gli esperti sono scettici. Sia sui numeri della depressione, da leggere con raziocinio, sia sulla corsa al farmaco. Luca Pani, direttore generale dell'Aifa, Agenzia italiana del farmaco, nonchè psichiatra esperto di farmacologia, invita a riflettere: «Non credo che oggi ci sia più depressione maggiore o unipolare, penso invece che ci siano più episodi depressivi legati al disturbo bipolare, dove all'episodio manicale segue la malinconia, la disforia. La diagnosi diventa difficile, ma vedo un nesso con l'aumento degli psicostimolanti, l'abuso di sostanze, la diminuzione delle ore di sonno. Vedo molte più reazioni emotive croniche. Attenzione anche alle spiegazioni secondarie, alla disoccupazione, al lutto per un figlio, a ciò che spiegherebbe la depressione: avere una spiegazione non esime dalla cura».


Anche Gianlorenzo Masaraki, celebre psichiatra e psicogeriatra, giudica superficiale accostare crisi economica e aumento esponenziale dei mali dell'anima: «Il malessere c'è sempre stato, in compenso adesso si usa meno l'etichetta "pazzia", ed ecco che aumentano i pazienti uomini, che non si vergognano più, non si sentono meno virili a ricorrere allo psichiatra, non si fanno accompagnare dalle mogli, vengono spontaneamente e non quando sono in una fase grave, con già  le gambe fuori dalla finestra. Fino a 20-30 anni fa, i miei pazienti erano donne per il 70%, oggi invece per l'80% sono uomini».


E poi? Aggiunge Masaraki: «Poi basta con l'antidepressivo prescritto al telefono o dal medico di base. Quante volte è definita depressiva una situazione che è in realtà  un'altra patologia, psichiatrica o organica. L'apatia, spesso segnale di un disturbo organico, vedi l'insufficienza tiroidea, non è la depressione, l'apatico pare depresso, magari si è autodiagnosticato su Internet, magari l'hanno "visitato" parenti o vicini di casa, ma, al contrario del depresso, non ha perso il piacere di far le cose, non è pervaso da sensi di colpa atroci... La depressione richiede moltissima esperienza, non è la settimana storta, non è certo la congiuntura internazionale... ». Quanto alla terapia... «Sì, il Prozac resta l'antidepressivo per eccellenza, quello che ha mandato in cantina i vecchi farmaci triclicici, che oggi hanno solo funzioni di nicchia, vedi l'amitriptilina, usata in basso dosaggio per certe forti cefalee. Il Prozac ha innescato molte rivoluzioni: la possibilità  di somministrare un farmaco per più tempo, almeno 6 mesi, che è la durata di risoluzione spontanea di un episodio depressivo, e poi lo stile di approccio, è una medicina che produce neurotrasmettitori, tiene in equilibrio l'umore, toglie timore al paziente... ».


Masaraki specifica: «Del resto, a parte il Prozac o la paroxetina, entrambi deputati a far rimanere la serotonina il più a lungo possibile nello spazio intersinaptico, non c'è alcun altro medicinale "sicuro". Pensiamo al Valdoxan, è pericolosissimo, mi rifiuto di prescriverlo, aumenta le transaminasi, in alcuni casi ha richiesto il trapianto di fegato, pensiamo alla venlafaxina, la cui "doppia" ricaptazione ha raddoppiato gli effetti collaterali, i rischi per la vista, la vescica, pensiamo al Citalopram, pubblicizzato per gli anziani ma oggi associato a rischi di anomalie del ritmo cardiaco... Meglio esser chiari: occorre un ritorno alla medicalizzazione del trattamento, ai controlli regolari, e, più che attendere novità  miracolose, si devono sfruttare le combinazioni tra i farmaci, per esempio, un ansiolitico, associato a un antidepressivo, è meglio del solo antidepressivo. Soprattutto occorre tornare alla combinazione tra farmaci e psicoterapia, le persone si sono affezionate alla pillola, non si raccontano più, cercano qualcosa di pronto da usare, la risposta rapida ai problemi esistenziali».


Luigi Cervo, direttore del laboratorio di psicofarmacologia sperimentale, nel Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, è in sintonia: «Nessun antidepressivo è diverso dall'altro. Le ultime revisioni critiche degli studi clinici in cui si è dimostrata l'attività  antidepressiva dei farmaci "nuovi" non evidenziano differenze apprezzabili nel loro effetto terapeutico. Come i farmaci antidepressivi di vecchia generazione, anche questi sono poco efficaci. Avrebbero però minori effetti collaterali. Uso il condizionale, perchè del Brintellix si conosce ancora poco».


Poi aggiunge: «Nell'ultimo decennio il consumo di antidepressivi è cresciuto in maniera drammatica, vuoi per un'aumentata prevalenza di depressione e altri disturbi psichiatrici nella popolazione generale, vuoi per la maggior maneggevolezza degli antidepressivi di nuova generazione. Bisognerebbe anche indagare quanto l'overdiagnostica possa aver contribuito a questo aumento. Con tutto ciò, la depressione continua a restare una patologia complessa, un disturbo dell'umore caratterizzato da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici e affettivi. Le cui cause sono ancora sconosciute. Diverse le ipotesi sulla sua eziologia che sono state avanzate, e che sono alla base di ricerche pre-cliniche e cliniche, nel tentativo di trovare rimedi terapeutici mirati».


Già, ma poi c'è il dolore tremendo, invincibile. Ci sono i malati che non rispondono ai farmaci "di prima scelta" e magari neanche di seconda, c'è chi sta così male da non poter aspettare che la cura farmacologica entri a pieno regime (da 15 giorni a più mesi, per apprezzare i primi effetti... ). Ed è qui che in realtà  punta la ricerca medica più interessante del momento. Vedi gli studi, debitamente clamorosi, per il Fast-Acting Depressant o Pillola della Felicità , incentrati sull'uso della ketamina (o similari) e della scopolamina e sul neurotrasmettitore glutammato... Gianlorenzo Masaraki annuisce: «La cosiddetta latenza dei farmaci è rimasto l'aspetto più misterioso della cura, un momento difficile, in cui non si sa bene cosa proporre, ansiolitici, sedativi... Penso che l'idea del Fast-Acting sia ottima, ma mi chiedo se la strada giusta sia quella della ketamina... ».


Interviene Luigi Cervo: «Non ci si muove da quel 30% di pazienti "che rispondono". Nel restante 70%, o ci sarà risposta transitoria senza remissione (circa il 20%) o non ci sarà  alcuna risposta (50%); i pazienti in quest'ultimo gruppo, talvolta persone con due o più tentativi di trattamento miseramente falliti, sono definiti "resistenti" agli antidepressivi, di vecchia e pure di nuova generazione. Studi clinici recenti avrebbero dimostrato che basse dosi di ketamina indurrebbero una risposta antidepressiva rapida in questo tipo di pazienti, con disturbo depressivo maggiore e pensieri suicidi».


(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link: http://www.sostanze.info/articolo/vorrei-essere-felice-subito


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)