Guarire dal gioco d'azzardo: intervista al dr. Paolo Jarre
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Guarire dal gioco d'azzardo: una malattia che colpisce un milione di italiani
La dipendenza dal gioco d'azzardo non va più presa sottogamba. E' ora di considerare finalmente la ludopatia per quello che è: una malattia. A sostenerlo è il ministro della Salute Balduzzi, che ha intenzione di inserire la cura di questa patologia nei Lea, i livelli essenziali di assistenza. "Cambierà tutto", assicura il Ministro, "ci saranno prevenzione e assistenza, verranno rafforzati i servizi nelle Asl; insomma una svolta concreta". A dover cambiare saranno anche le pubblicità: "Non vogliamo più vedere uno spot dove si dice che chi non gioca è un bacchettone. Proibire non è la soluzione, ma nemmeno spingere al gioco in questo modo".
Ma che cos'è la ludopatia, chi ne soffre, quali sintomi dà e soprattutto come può essere curata? Panorama.it ha intervisto Paolo Jarre, direttore del Dipartimento Patologia delle Dipendenze dell'Asl To 3, che ha di recente aperto due centri di trattamento residenziale per la dipendenza da gioco in Piemonte.
Che cos'è la dipendenza da gioco?
Il nome ludopatia è una deformazione italiana, il problema non è di gioco ma di gioco d'azzardo, infatti dappertutto nel mondo si parla di gioco d'azzardo patologico. E' una malattia riconosciuta da 30 anni a questa parte a livello mondiale. E' sempre più assimilata alle dipendenze patologiche da droghe, alcol e sesso. Non esiste una linea di demarcazione tra chi gioca in modo sociale e chi lo fa in modo patologico. Si tratta di un continuum con zone intermedie di gioco a rischio o gioco problematico.
Quante persone ne soffrono in Italia?
Oltre 30 milioni di italiani hanno giocato almeno 1 euro nell'ultimo anno. Quattro o cinque milioni giocano in modo un po' più rischioso, cioè scomettono somme importanti rispetto al proprio patrimonio. Poco meno di un milione di italiani giocano in modo francamente problematico, con problemi sul piano relazionale, familiare, sul lavoro. Infine sono 200.000 i giocatori patologici.
Quali sono i fattori di rischio?
Un misto di diversi elementi. Prima di tutto come si nasce, perché sappiamo che c'è qualche ereditarietà in parte connessa con altri comportamenti di dipendenza, e poi dove e come si cresce. Un ambiente familiare in cui gi aspetti materiali sono enfatizzati rispetto agli aspetti emotivi è un fattore di rischio. In Italia poi oggi abbiamo il grosso problema dell'offerta massiccia che rappresenta un pericolo. Chiunque di noi dal mattino alla sera è bombardato da almeno 40-50 messaggi: radio, tv, banner su internet, giornali invitano in qualche modo al gioco.
L'offerta crea la domanda, anche patologica?
Ho diretto uno studio nazionale "Il gioco è una cosa seria" in cui analizzavamo le città dove ci sono più occasioni di gioco. Abbiamo preso come città simbolo Gorizia, che si trova al confine con la Slovenia, dove ci sono casinò aperti 24 ore su 24. Qui la proporzione dei giocatori patologici è doppia rispetto al resto della regione Friuli. L'aggressività dell'offerta è un fattore fondamentale.
E la crisi economica ha un ruolo?
La crisi economica fa impennare il problema: meno risorse si hanno e più si è propensi a rischiare. Sicuramente c'è un rapporto inversamente proporzionale con la condizione di benessere. Per questo il gioco è una malattia sociale: giocano di più le persone meno istruite e con minore reddito. Siamo di fronte a una forma di tassazione inversa, in pratica il contrario dell'Irpef.
Ci sono vari livelli di gravità?
Anche nel giocatore patologico c'è il più grave. Il marcatore dell'ingresso nella patologia è costituito dalla rincorsa delle perdite. Il giocatore che non si rassegna di fronte a una perdita significativa e cerca di rifarsi sempre col gioco. Il passaggio a un livello grave è il superamento del confine della legalità: comportamenti illegali, truffe, assegni scoperti, furti, ammanchi sul luogo di lavoro sono tutti segnali forti.
Quali sono i sintomi che si sta scivolando nella dipendenza?
Le dipendenze da droga, alcol, pornografia e gioco d'azzardo sono molto più simili tra loro di quanto pensiamo per come trasformano le vite degli individui. Il criterio diagnostico principale è quello di trascurare le proprie normali occupazioni. Un altro sintomo è l'aver bisogno di giocare sempre di più per ottenere lo stesso piacere: è l'assuefazione. Esistono anche forme cosiddette iatrogene di dipendenza, che troviamo in persone anziane con morbo di Parkinson, che sono trattate con farmaci dopaminergici, tra i cui effetti può esserci anche quello di stimolare comportamenti sessuali o di gioco disinibiti.
Come se ne esce?
In Italia cominciano a esserci diversi centri per i trattamento dei giocatori, ma ciò è lasciato alla libera iniziativa delle singole Regioni e delle singole Asl. Si fa un lavoro prevalentemente di tipo psicologico e psicoterapeutico sui disturbi cognitivi dei giocatori. Hanno quasi tutti un disturbo di eccesso di pensiero magico, pensano cioè di poter influenzare il caso, e mettono in piedi tutto un sistema, fatto di credenze matematiche erronee. Gran parte del lavoro consiste nel cercare di correggere queste distorsioni. I gruppi più organizzati hanno al loro interno diverse competenze: oltre agli psicologi ci sono assistenti sociali, che fanno un lavoro sulle relazioni familiari, spesso devastate dal gioco, e sul recupero dei debiti. E poi medici per il trattamento farmacologico volto al contenimento del desiderio. I trattamenti si possono svolgere ambulatorialmente oppure in forme residenziali di comunità terapeutiche. Ve ne sono due in Piemonte (a Rivoli e in bassa Val di Susa) e poi a Siena, a Reggio Emilia e a Pistoia. Al Sud di residenziale a livello pubblico ancora non c'è nulla.
Se ne esce davvero?
Come per tutte le dipendenze è un'uscita con prognosi riservata. Noi parliamo di compenso o stabilizzazione, non usiamo mai il termine guarigione. Diciamo che oltre il 50% riesce a smettere e a stare senza giocare per mesi o per anni, con un rischio però maggiore di chi non ha giocato mai. Ci sono anche gruppi di auto-aiuto, i Gamblers anonimi, ma solo nelle grandi città. Si tratta comunque di un fenomeno limitato, che da noi non ha preso piede come nei paesi anglosassoni.
marta.buonadonna
(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)