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I meccanismi delle dipendenze: processi emotivi, cognitivi, neurobiologici (seconda parte)

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I meccanismi delle dipendenze


Dinamiche del sistema del desiderio


In questo mosaico di squilibri, che si intersecano, si influenzano reciprocamente, non potevamo non parlare del sistema dopaminergico che con la dipendenza ha molto a che fare, la dopamina è pur sempre la sostanza che ci spinge, a volte anche quando noi non vorremmo. Tale complesso circuito modulatore viene chiamato in vari modi: il sistema dei bisogni, delle motivazioni, delle attese, delle aspettative, del desiderio. Ci impegna in ogni momento della nostra vita nel raggiungimento dei nostri obbiettivi. Dal suo corretto funzionamento dipende il nostro stato generale di benessere o malessere. Ma esso non coincide con il sistema della gratificazione, come a volte si insiste a dire.


La dopamina non è la molecola del piacere bensì del desiderio.

Dei circuiti sottocorticali del piacere e del dispiacere abbiamo già discusso, essi hanno le loro reti ed i loro neuromodulatori. Ciò non toglie che tra il sistema del desiderio e quello della gratificazione non vi siano stretti collegamenti.Ma è bene ribadire questa distinzione, soprattutto per il nostro ragionamento, in quanto altrimenti non potremmo spiegare perché nelle dipendenze vi sia l'impulso a ripetere , in non pochi casi, esperienze emotivamente negative. Detto in poche parole, perché desideriamo star male, il che pare un'assurdità, un controsenso, un'ipotesi rifiutata del resto a priori dal senso comune.

Il sistema del desiderio si origina nel tronco encefalico, area del tegmento ventrale (VTA). Si espande superiormente nel ramo mesocorticale verso la corteccia prefrontale, dove aspetti cognitivi e di emotività superiore si coniugano. Il ramo mesolimbico, invece, termina nel nucleo accumbens, la cui attivazione sembra fondamentale per rinforzare il comportamento appreso, e che proietta con azione inibitoria sul globo pallido interno (output dei gangli della base). Il risultato finale di tutto ciò è rappresentato da un effetto facilitatorio, tramite il talamo, sulla corteccia motoria. Come si vede, nel sistema del desiderio cognizione, emozione e azione appaiono strettamente correlati. Del resto tutti noi abbiamo provato comunemente , quando si è fortemente attratti da qualcosa, eccitamento ed un irresistibile bisogno di movimento, un impulso ad agire.

Soggetti che a livello sperimentale hanno voluto provare su se stessi come ci si senta bloccando temporaneamente la trasmissione dopaminergica, riferiscono di uno stato di completa abulia, apatia, incapacità di muoversi o intraprendere una benché minima iniziativa. Ciò assomiglia molto ad uno stato di grave depressione.

Perché si arrivi dunque ad entrare nel tunnel delle dipendenze occorre che preventivamente il sistema in questione si sia ipoattivato.

Non c'è una via univoca che conduca ad una tale situazione finale, tuttavia proveremo a riassumere le tappe salienti di questo percorso, senza voler con ciò suggerirne un andamento conseguenziale cronologico.

Si può iniziare con la tendenza costante a rinforzare le esperienze negative, il che, parallelamente, ci desensibilizza nei confronti di quelle positive. Ma la felicità non è gratis, come è stato detto. Se non abbiamo appreso a rinforzare i circuiti del piacere, non è che poi anche se lo volessimo ci riusciremmo a farlo spontaneamente. Mi riferisco soprattutto alle esperienze quotidiane, quelle che costano poco e che proprio per questo sembrano contare ancor meno.Ecco perché poi, per eccitarci, abbiamo bisogno di esperienze speciali e fuori dell'ordinario. E nemmeno per star bene basta essere liberi dalle sofferenze perché il benessere non si crea appunto nel vuoto.
Le esperienze negative, poi, favoriscono l'usura del sistema noradrenergico in quanto iperattivato da queste. La corteccia diventa così meno "fredda" ed equilibrata. Si crea uno stato di maggior tensione, irritazione, confusione mentale, la capacità di concentrarsi si riduce drasticamente. Un cervello troppo rumoroso ci impedisce in definitiva di affrontare la realtà con pacatezza ed obbiettività.

La nostra mente è meno lucida e capace di ragionare, riflettere, fare progetti a lungo termine. Anche il sistema dopaminergico così si ipoattiva, le nostre aspettative si scoloriscono, si perde il gusto della vita. Pian piano la corteccia prefrontale allenta il suo dominio sull'amigdala ed il nucleo caudato, strutture sottocorticali che si iperattivano. Le reazioni emotive negative sfuggono in maniera eccessiva al nostro controllo, mentre si tende inevitabilmente ad estremizzare le proprie esperienze. Ci sentiamo attratti, da un lato, da stimoli forti, novità, dall'imprevisto, mentre dall'altro abbiamo bisogno di routine cognitive consolidate, di comportamenti perseverativi. Anche le vie ippocampali languiscono, il che vuol dire che si apprende meno, si memorizza meno, si ricorda di meno.


Come s'instaura una dipendenza

Il quadro che abbiamo schematicamente riassunto rappresenta una generalizzazione e quindi un'astrazione rispetto a ciò che può succedere in certi casi nella vita di una persona. Ogni individuo è però un caso a sé e come tale va valutato.
Prima di esaminare i meccanismi della patologia delle dipendenze, è doveroso fare una distinzione a tal proposito per evitare fraintendimenti.

Se guardiamo bene siamo tutti dipendenti , chi più chi meno, e la nostra esistenza è piena di boe di salvataggio. Anche se vi è una certa continuità, possiamo distinguere due modalità di comportamento additivo. La prima, diciamo più normale, si esprime nei confronti dell'oggetto da cui si dipende, con un atteggiamento di attaccamento amche forte ma di cui non si perde totalmente il controllo. Si ha bisogno dell'oggetto in questione, ma in casi estremi se ne può fare a meno, vi si può rinunciare anche se costa sofferenza. L'altra modalità, ed è quella cui noi facciamo riferimento, è più assolutistica e si esprime in affermazioni quali: "non so vivere senza", "mi è indispensabile per vivere" e si manifestca attraverso spinte compulsive spesso incontrollabili.

Perché si instauri un comportamento additivo di questo tipo è necessario che l'esperienza da cui si dipende sia fortemente rinforzante. Ora sappiamo da numerosi esperimenti che ciò si verifica solo quando gli assoni che rilasciano dopamina vengono attivamente stimolati, ed in particolar modo nell'area mesolimbica del nucleo accumbens. Ma il sistema del desiderio non è il sistema del piacere. E' quindi rinforzante, per principio, qualsiasi esperienza che provochi la ripetizione di un atto, anche se questo non si può definire piacevole in senso stretto. Quando ci si ubriaca sino allo stordimento, negli sballi ad es., del sabato sera, non si va alla ricerca del piacere. Quando si assume crack, che induce cupe esperienze di paranoia, non si va alla ricerca del piacere, almeno come si intende abitualmente, ecc.

La stessa assunzione di cibo, un evento naturalmente piacevole, produce un aumento del rilascio di dopamina solo se è "sorprendente". Questo significa che se mangiamo normalmente proviamo sì un certo piacere, in rapporto alle nostre preferenze ed alla qualità del cibo, ma non attiveremo più di tanto il circuito dopaminergico.

Per ottenere lo "sballo"occorrerà manipolare, alterare il sistema di ingestione dello stesso cibo, e questo magari anche in senso inverso, cioè riducendone all'osso la sua assunzione, come accade nelle persone anoressiche. Solo quando , in qualche modo, si produce un'esperienza "anomala", le sinapsi dopaminergiche e del nucleo accumbens si attivano in maniera consistente, e probabilmente acquisiscono la capacità di attrarre l'attenzione su quell'evento. Qualsiasi droga, in definitiva, anche se non produce particolari effetti piacevoli, possiede la tremenda capacità, se non altro, di dominare l'attenzione di chi la consuma.

Paradossalmente, l'improvviso innalzamento dei livelli di dopamina nel sistema del desiderio, induce il cervello (e quindi anche la mente) a valutare la situazione come "positiva", anche se non è eccezionalmente gratificante dal punto di vista del circuito del piacere e così a programmarlo verso la ripetizione. Naturalmente poi, la ripetizione rafforza nel cervello le connessioni tra l'atto ed il sentimento "positivo" che se ne ricava.

Non è dunque la ricerca pura del piacere, come spesso si pensa, a rendere gli individui vulnerabili nei confronti delle varie droghe, quanto piuvttosto il bisogno di trovare uno sfogo ad una situazione di vita fortemente sgradevole da cui non si intravede una via di uscita. Ed è proprio questo il punto cruciale. Nelle difficoltà, se si hanno delle risorse si può intravedere uno sbocco o almeno c'è la speranza di un cambiamento. Se la vita appare irremediabilmente grigia e senza attrattive, è perché il sistema del desiderio (oltre a quello del piacere) è stato seriamente danneggiato e l'unico sbocco per riattivarlo sembra essere la ricerca di esperienze compulsive eccitanti, le uniche che sembrano in grado di farlo.

D'altronde, mentre il sistema del piacere si dimostra più recuperabile, quello dopaminergico del desiderio rischia di restare durevolmente alterato.

Di fronte al senso di vuoto, di noia insopportabile, di angoscia, di insicurezza, si può scivolare impercettibilmente da un'apparente normalità al comportamento patologico. La dipendenza si insinua lentamente nel quotidiano sino ad arrivare alla soglia di una ritualità compulsiva che appare al soggetto come un male necessario per continuare a vivere, per calmarsi e sentire di esistere. Altre volte, invece, il passaggio può avvenire in maniera piuttosto repentina, violenta, magari in seguito ad un episodio negativo o traumatico scatenante.

Abbiamo esaminato i meccanismi di base che possono favorire l'insorgere di comportamenti additivi e possiamo concludere che tali meccanismi sono analoghi per ogni forma di dipendenza.
Tutto ciò ha una ricaduta dal punto di vista terapeutico e se pur si dovrà tener conto delle specificità di ogni singolo caso.tuttavia non si potrà prescindere dal prendere in considerazione quei processi di base che predispongono e poi sostengono la dipendenza. Non è solo etichettando il disturbo che si risolve il problema, anche se ciò ci tranquillizza momentaneamente, offrendoci un po' di ordine al senso di confusione interiore e smarrimento da cui vorremmo sfuggire.

C'è da chiedersi inoltre come dei fattori predisponenti possano poi concretizzarsi nel convergere verso una specifica dipendenza.

Qui evidentemente sono in gioco, come si sa, elementi condizionanti sia di natura esterna che interna.

Per quanto riguarda la dipendenza dal cibo non bisogna dimenticare, ad es., l'impatto che ha nella nostra società l'attenzione quasi morbosa che sin dall'infanzia la famiglia riversa sul comportamento alimentare, visto anche come merce di scambio per ottenere affetto e ricompense. E' evidente che l'importanza che il cibo assume nelle dinamche familiari si imprime nel cervello ancora in via di formazione del bambino, ponendo così un'ipoteca sui suoi futuri comportamenti. In età adulta, non dimentichiamo inoltre, l'impatto che hanno nella nostra società l'imposizione di certi modelli estetici femminili nei cui confronti si può instaurare una osservanza rigida e restrittiva come avviene nell'anoressia oppure una sorta di ribellione autodistruttiva come nelle iperfagia e nel BED o ancora un adattamento ambiguo come nelle bulimie patologiche e anoressiche.

Tra i fattori condizionanti interni sono determinanti le caratteristiche della personalità dell'individuo da analizzarsi durante l'eventuale trattamento psicoterapico, come certe sue inclinazioni particolari: ad es., l'attrazione verso certi alimenti quali i latticini ed i carboidrati può nascondere il bisogno inconscio di riattivare il sistema endorfinico del piacere, in quanto la caseina ed il glutine in essi contenuti predispongono l'organismo alla sintesi di oppiacei endogeni.

Non dobbiamo, poi, tralasciare l'influenza specifica, anche se più limitata , dei fattori genetici. Ad es., nei casi di compulsività alimentare si ipotizzano delle alterazioni nella neurotrasmissione. Un basso livello di secrezione postprandiale della colecistochinina e più alti livelli del neuropeptide PY, finiscono per alterare il senso della sazietà.

Nei casi di obesità vi potrebbe essere implicata anche la mutazione di un gene per il recettore della melanocortina, con la conseguenza di un aumento della fame. In casi più rari il difetto genetico si tradurrebbe in una diminuita produzione di leptina e/o in una diminuita sensibilità dei suoi recettori.

A livello meno specifico, non dobbiamo trascurare alterazioni genetiche quali quelle che inducono una riduzione nel numero dei recettori D2 dopaminergici e quelle riguardanti la codifica per un recettore della serotonina che si traducono poi in una minor quantità dello stesso presente nei neuroni del sistema serotoninergico. Ciò ha come conseguenza una disinibizione, tra l'altro, nei confronti dell'attrattività degli stessi alimenti. Inoltre, secondo studi effettuati, si può verificare una maggiore attivazione del sistema del dispiacere poiché l'amigdala si fa più sensibile agli stress, venendo a decrescere l'effetto inibitorio che la stessa serotonina ha su questo nucleo.

Ma il medesimo effetto può essere ottenuto, come abbiamo già detto, quando iperattiviamo il sistema del dispiacere rinforzandolo in maniera sconsiderata in modo da favorire la deplezione del locus coeruleus.


Strategie psicoterapeutiche

Vorrei concludere non prima di aver evidenziato alcuni punti che mi sembrano cruciali ed ai quali un eventuale intervento psicoterapeutico dovrebbe dare la dovuta attenzione.

Primo punto: i pazienti in terapia hanno spesso la convinzione che la dipendenza di cui ostinatamente soffrono, abbia magari una qualche origine misteriosa, faccia parte di un lato oscuro della propria personalità e sia perciò insondabile. Tutto questo finisce per disincentivare inconsciamente l'impegno terapeutico. Una conoscenza quindi, accessibile e semplificata dei meccanismi cerebrali che sottintendono il funzionamento della mente sarebbe auspicabile. Si combatte meglio ciò che si conosce.

Secondo punto: non sottolineeremo mai abbastanza il fatto che dietro un comportamento additivo vi è da parte del soggetto il bisogno sottaciuto, e totalmente ripudiato a livello conscio, di farsi del male. Poche persone sono disposte ad accetteare un tale assunto che va contro il senso comune. L'eventuale impegno in psicoterapia potrebbe apparentemente voler dire il contrario. Ma l'apparenza spesso inganna.

In primis , va sottolineato che la maggior parte delle persone che hanno problemi di dipendenza non va alla ricerca di un aiuto costruttivo che impegni, anzi è facile che passi con il tempo da una a più dipendenze. Poi, è noto che ci si rivolge ad un professionista non ai primi stadi della dipendenza bensì quando la situazione si è ormai incancrenita e sfuggita di mano, producendo così inoltre forti sensi di colpa. La psicoterapia servirebbe allora a ridurre tali sensi di colpa e ad abbassare, se possibile, il livello di sofferenza che ha oltrepassato la misura che siamo disposti a tollerare.

Senza un'accettazione consapevole ed approfondita, anche se non colpevolizzante, del proprio potenziale autodistruttivo è difficile alla lunga progredire in modo costante nel cammino verso il superamento della dipendenza.

Terzo punto: i soggetti dipendenti da crisi di compulsività ciclica, in particolare, soffrono di un profondo senso di disistima nei propri confronti che contribuisce a disincentivare ogni serio tentativo di recupero. Riacquistare però un po' di autostima è necessario per innestare il circolo virtuoso verso la guarigione. Bisogna tuttavia vedere cosa s'intenda con ciò, visto che nella nostra società il termine risulta inscindibilmente legato al concetto d'immagine, e all'immagine ci tengono del resto tutti. Non c'è da meravigliarsi quindi che coloro i quali soffrono di comportamenti additivi facciano di tutto per nascondere la loro impulsività coatta, nei momenti specialmente in cui perdono il controllo. Se però insistiamo nel mantenerci vincolati al concetto d'immagine non andiamo da nessuna parte. Del resto, nel confronto con gli altri riusciremo sempre perdenti. Né aumenteremo la nostra autostima recitando vuote formule giaculatorie. Se invece essa riflette la valutazione approfondita e costruttiva che abbiamo nei nostri confronti, allora l'autostima non potrà radicarsi che nella concretezza del reale, in un processo operativo che ha come fine da parte del soggetto la conoscenza del proprio sé.

I filosofi antichi, a tal proposito, parlavano di ascesi e cioè letteralmente di "esercizio". Dopo tanti secoli, non si conoscono ancora altre scappatoie. Una tale conoscenza non rappresenta un lusso bensì una necessità ineludibile.

Quarto punto: vincere una dipendenza non è facile. Ma non lo è neppure mantenere le distanze da questa, una volta che pensiamo di essercene liberati. Il problema delle ricadute è frequente, spesso si sottovaluta il pericolo e si sopravvalutano le proprie forze.

Quando s'instaura una dipendenza, i circuiti cerebrali in questione vengono ad essere continuamente rinforzati, e tanto più lo sono quanto maggiore è il coinvolgimento emotivo. L'attivazione ripetuta del sistema dopaminergico del desiderio coinvolge del resto anche l'ippocampo, la struttura che rende possibile la formazione nella neocorteccia di ricordi a lungo termine apparentemente indelebili. In definitiva, l'instaurarsi di una dipendenza è un vero e proprio processo di apprendimento altamente coinvolgente e perciò resistente ad estinguersi. Il ruolo della dopamina è fondamentale in quanto favorisce indirettamente la crescita ed il rafforzamento di nuove sinapsi.

Fortunatamente la ricerca sperimentale ha dimostrato che esistono meccanismi inversi, i quali consentono di depotenziare i circuiti precedentemente rinforzati. Le connessioni sinaptiche si possono indebolire se i neuroni in questione vengono ad essere riattivati più debolmente in maniera prolungata.

Questo sembra possibile nel nostro caso, se l'attivazione ripetuta del comportamento additivo viene depotenziata da un minor coinvolgimento emotivo, che lo renderà progressivamentce meno rinforzante.E ciò si potrà verificare se parallelamente saremo in grado di rinforzare i circuiti del piacere in modo alternativo, con comportamenti costruttivi adeguati sottraendo così energia emotiva a quelli additivi.

Queste basi neurofisiologiche dell'estinzione ci suggeriscono che è probabilmente più efficace una tale procedura piuttosto che la semplice rinuncia (di solito forzata) al comportamento additivo. In tal caso, infatti, l'attrattività di quest'ultimo verrà con il passare del tempo a potenziarsi, e con essa anche il coinvolgimento emotivo. I rischi di ricadute si fanno per tanto sempre più probabili.

Quinto punto: dobbiamo concludere che alla fine siamo tutti a rischio dipendenza, se non si è appreso a coltivare le emozioni positive ed a tener a freno, per quanto è possibile e conveniente, quelle negative. Le dotazioni nervose che ereditiamo sin dalla nascita non ci garantiscono il loro buon funzionamento ove non le avessimo doverosamente esercitate.

E' stato già detto che la felicità non è gratuita, mentre noi ostinatamente vogliamo continuare a credere che essa dipenda unicamente da eventi esterni a noi, che saremo finalmente felici quando riusciremo a liberarci dalle circostanze avverse che ci opprimono. Ma se non abbiamo esercitato con le opportune esperienze, con un corretto stile di vita i circuiti del piacere, il benessere e la felicità (umanamente intesa) ci sfuggiranno sempre di mano.

La qualità della nostra vita dipende molto meno di quanto si pensi dal mutare degli eventi esterni, siano essi positivi che negativi.

In definitiva, la cura dei comportamenti additivi scorre su due binari paralleli. Da una parte il ricablaggio dei circuiti relativi alla specifica dipendenza con lo scopo di indurne l'estinzione. Dall'altra, la riduzione del fuoco che alimenta ogni dipendenza, e cioè di quello stato di malessere esistenziale rumoroso che spinge la nostra attenzione verso quegli stimoli, come in un miraggio, da cui finiremo poi per essere fatalmente attratti e dipendere.


Fonti bibliografiche:

Alonso-Fernandez Francisco, Las otras drog as, Temas De Hoy, 1996
Goldberg Elkhonon, La sinfonia del cervello, Adriano Salani Editore, Milano, 2010
Holley André, Il cervello goloso, Bollati Boringhieri, Torino, 2009
Kalat W.James, Biopsicologia, EdiSES, Napoli, 2004
Klein Stefan, La formula della felicità, Longanesi&C., Milano, 2003
Le Doux Joseph, Il sé sinaptico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002
Mundo Emanuela, Neuroscienze per la psicologia clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
Ratey John J., Johnson Catherine, Le sindromi ombra, Longanesi&C., Milano, 2000
Solms Mark, Turnbull Oliver, Il cervello e il mondo interno, Raffaello Cortina Editore, 2004


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Dott. Fernando Gallorini


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)