Il fenomeno del " baby-alcolismo"
A diciassette anniMario è già un alcolista con un passato in una comunità di recupero. Giacomo ha quattro anni in più e il lunedì, dopo la sbornia, si sente «in colpa» perché nel weekend appena trascorso ha «picchiato mamma mentre il cervello era alterato dal gin». A quindici anni Vincenzo si ubriaca ogni sabato sera «per farsi accettare dal gruppo di amici, che bevono tutti».
Storie di vite rubate dall’alcol: storie di vite sempre più giovani, un po’ più giovani ogni anno che passa. Storie di tragedie tangibili, che di romanzato, purtroppo, hanno solo i nomi dei protagonisti. Secondo i dati di Alcolisti Anonimi Campania (A.A.), «negli ultimi 15 anni l’età di chi si rivolge a noi è calata moltissimo: è scesa di 10 anni». A parlare è Pasquale M., coordinatore dell’area regionale di Alcolisti Anonimi. Insomma, se all’inizio del terzo millennio erano per lo più trentacinquenni e quarantenni a essere stati “infettati” dal mostro dell’alcol-dipendenza, «oggi l’età media di chi segue i nostri percorsi è di ventisette anni - prosegue Pasquale M. - A ventisette anni circa, nel 2020, si è già toccato il fondo». Una situazione sempre più diffusa, un’età media sempre più bassa. Il problema è di «natura culturale» (il paradosso dell’espressione è tutto apparente), e non solo perché intorno ai diciotto anni è più facile perdere il controllo e cadere nelle sabbie mobili della dipendenza. «Quando usciamo, se non beviamo non sappiamo cosa fare e non proviamo nulla – emerge dalle storie dei giovanissimi degli 11 gruppi di A.A. sul territorio partenopeo – Senza sballo ci annoiamo e non abbiamo idea di come riempire la serata».
L’ubriachezza fa commettere azioni di cui ci si pente pochissime ore dopo. E l’alcol, sempre più spesso, non si lega necessariamente alla povertà, al disagio familiare, né al contesto sociale «difficile». Anzi. Giacomo, ventuno anni appena, ha raccontato la sua vicenda straziante durante le riunioni di un gruppo degli Alcolisti Anonimi del centro di Napoli (per ragioni di privacy non diremo quale). Giacomo è un giovane del Vomero, della Napoli collinare, di uno dei quartieri «residenziali» per eccellenza, ed è di famiglia «benestante» e attenta. «Mi sono pentito di quello che ho fatto l’altra sera – si rammaricava il lunedì, un paio di mesi fa – ho aggredito mia madre. L’ho picchiata, ma non volevo. L’alcol mi trasforma in un’altra persona durante il fine settimana. Ho iniziato a bere 7 anni fa, alle superiori, e subito dopo ho attaccato a farmi le canne. Con gli anni, poi, ho preso ad abbinare le pasticche all’alcol». Fino a perdere il controllo di sé. Come dottor Jekyll e mister Hyde.
La solitudine, la rabbia, la disperazione: queste tre condizioni restano, oggi come ieri, strade maestre per farsi tirare giù nell’incubo degli alcolici. In questo caso, si beve per «non pensare alla realtà», per alleggerire i traumi di un vissuto troppo pesante da affrontare a tutte le ore di tutti i giorni. È la storia di Mario, che attualmente è membro di un altro gruppo di ascolto campano di Alcolisti Anonimi. Mario ha «conosciuto l’alcol nel 2009, a 10 anni. Poi, dopo poco, il passaggio a canne e coca». Alle spalle, stavolta, c’è una famiglia «complessa». Mario a 14 anni è stato per la prima volta in una comunità. Dopo essere uscito dal programma ha ripreso a bere. Oggi, dopo essere diventato un «peso» per gli stessi genitori, il ragazzo è aiutato «dal vicinato e da Alcolisti Anonimi». Porta la «spesa nelle case, così da essere occupato, avere qualche spicciolo in tasca e combattere il mostro dell’alcol».
copia integrale del testo si può trovare al seguente link: https://www.ilmattino.it/pay/edicola/minori_e_alcol_a_napoli_inchiesta-4972524.html
(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.cufrad.it)