Il "paradosso italiano": ovvero quando conviene produrre uve mediocri per ottenere vini di successo
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Se i francesi hanno il loro celebre paradosso (cioè l'incidenza ridotta delle malattie cardiovascolari nonostante un'alimentazione ricca di grassi, grazie al consumo regolare di vino anche nel Bel Paese possiamo vantare il nostro. Purtroppo si tratta di un paradosso non molto lusinghiero, che lo studio di consulenza agronomica Sata di Milano (info: www.agronomisata.it , Marco Tonni), ci segnala con osservazioni decisamente poco attaccabili.
Se ormai siamo abituati a considerare il valore sociale ed economico delle cantine sociali, che hanno ormai imboccato un solido percorso qualitativo, fatto di una giusta remunerazione delle uve, sostegno alla viticoltura del territorio, vini di buon livello, graditi al consumatore e a prezzi ragionevoli, forse siamo meno abituati a cogliere anche il "lato oscuro" della questione, che, purtroppo, continua a sussistere e a compenetrare in modo non secondario la struttura produttiva del comparto vitivinicolo italiano.
Il percorso che deve affrontare una cantina sociale è impegnativo, perché accompagna i soci verso scelte di qualità rigorose, sia in termini economici che di impegno personale, imponendo allo staff tecnico della cantina di conoscere a fondo i soci conferitori e le loro vigne e di assumersi la responsabilità della validità tecnica e della sostenibilità economica di ciò che si propone. Uno dei risultati principali di queste scelte è quello di ottenere uve sempre migliori e una progressiva scomparsa dell'acquisto dall'esterno di mosto concentrato per effettuare correzioni.
Ed eccoci arrivati al "paradosso italiano". Secondo lo studio agronomico Sata, evitare l'acquisto di mosto concentrato non è "un risparmio per una cantina sociale", perché raccogliere uva matura e di buon livello qualitativo "fa bene alla qualità, ma male al bilancio". Un'affermazione decisamente forte che i tecnici milanesi spiegano così: "i concorrenti del settore sono ben felici di acquistare mosto concentrato, che ovviamente diventa vino, perché così si aumentano i volumi di commercializzazione e, considerato che per l'acquisto si fruisce di un contributo pubblico pressoché pari alla spesa, il costo per l'acquirente diventa prossimo allo zero".
Insomma, chi si impegna per produrre uva di qualità, che, come è accaduto quasi in tutta Italia quest'anno, sono state sottopagate, non è per nulla premiato, mentre le cantine che acquistano mosto lo sono. "Che sia forse meglio ripensare - si chiedono i consulenti di Sata - qualcosa di questo perverso meccanismo? Oppure continuiamo ad avvalorare nel silenzio le strategie anti-qualità e anti-viticoltura, perché è più conveniente per alcune aziende e per qualche furbo e potente consulente "enologico-commerciale" guadagnare sulle provvigioni incassate con gli abbondanti acquisti di mosto? Forse sarebbe meglio parlare chiaro e forte e stilare guide, classifiche e commenti sul vino pensando di più a chi il vino lo produce davvero, ai viticoltori sinceri, alle aziende scrupolose, a tutti quelli che stanno arrancando per proporre qualità figlia del territorio, e di meno a quei nomi di grido che fanno girare tanto vino e affondare tanti vigneti ... Oppure, tutti zitti ed estirpiamo i vigneti, tanto il mosto concentrato può arrivare da qualsiasi parte del mondo che è uguale ...".