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In trent'anni suicidi triplicati

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Buttar via la vita: sotto la metro, da un ponte, nella tromba delle scale. Lanciare nel vuoto i propri quindici anni e con loro quel dolore sconosciuto, tanto forte da desiderare che sia l'ultimo. Un amore finito, un litigio, un brutto voto, un corpo odiato, la tristezza che non se ne va, una lite in famiglia, forse è poco per dire basta, ma per un ragazzo quel poco è tutto. Sempre più quelli che decidono di farla finita: il suicidio è oggi la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni, dopo gli incidenti stradali. Ma chissà quanti scontri e voli dai motorini, avvertono gli esperti, sono in realtà suicidi mascherati, come i cocktail di alcol e droga e tutte le sfide con la morte. La percentuale dei suicidi tra i giovani (fino a 24 anni) è triplicata negli ultimi 30 anni, nel 2007, 153 casi, di cui 24 solo in Lombardia, la regione che in Italia detiene il primato. Accade più frequentemente tra i ragazzi, mentre i tentativi di morte sono per lo più delle ragazze e nella metà dei casi si ripetono entro due anni. Colpa della depressione, sostengono in molti, che colpisce l'1% dei bambini e il 3% degli adolescenti di cui appena il 25% viene curato. «Ma il gesto suicida non è detto che sia il culmine di uno stato di depressione, potrebbe essere l'esito semmai di una angoscia fortissima», spiega Maria Adelaide Lupinacci, psicoanalista, responsabile del Servizio di consultazione bambini e adolescenti della Spi (Società psicoanalitica italiana). E per la famiglia non è facile vedere quel dolore che cresce dietro occhi assenti, «i ragazzi non chiedono l'aiuto degli adulti perché non si fidano e dunque non si affidano. Spesso si mettono sotto accusa i genitori, ma per loro è difficile intercettare quel disagio profondo. Il rapporto con l'altro è desiderato, ma anche conflittuale». La fine di una storia d'amore è molto più che una delusione che brucia nel cuore, «è il crollo di sè, della propria identità. A quell'età si attraversa un momento di grande vulnerabilità, si è disorientati, non si sa cosa si vale, dove si vuole andare. Non si sa nemmeno a chi fare riferimento». Capita così, nei momenti d'angoscia, di cercare il vuoto, «di lanciarsi sotto per andare verso qualcosa, di buttarsi giù perché ci si sente incastrati in una situazione senza via d'uscita». Quindici anni, «un'età delicata, di passaggio. Non più piccoli e nemmeno grandi».
Ragazzi talmente «fragili e senza progettualità da crollare al primo problema», per Paola Vinciguerra, psicologa e psicoterapeuta. E attenzione al «contagio», avverte Anna Maria Nicolò, neuropsichiatra infantile e psicoanalista, «si è visto che dopo un suicidio la possibilità percentuale che altri ragazzi ci provino è molto alta». Gli adolescenti oggi sono più a rischio per due ragioni, «quel senso di identità confusa e di vuoto che li avvolge e la tendenza ad agire piuttosto che a pensare. E nell'atto del suicidio si viene a determinare un taglio tra le emozioni e la capacità di elaborare, si spezza il legame col pensiero». Tante volte chi ci prova non ha alcuna intenzione di morire, «e i genitori sono portati a dimenticare i tentativi di suicidio. Invece dovrebbero contattare le fantasie che sostengono quel gesto: è un ricatto sull'altro, il desiderio di uccidere un corpo odiato o una parte di sé che provoca disagio, oppure l'odio per un'adolescenza che non riesce a diventare autonoma e attraverso quel gesto si vuole affermare la propria volontà».
Prevenire si può, «facendo crescere la capacità di ascolto delle scuole, delle strutture sportive, dei genitori», sostiene Caterina Scafariello, psichiatra e psicoanalista. «Gli adulti devono imparare ad ascoltare gli adolescenti, a mantenere un contatto, a stargli vicino. Non ascoltare i ragazzi è una forma larvata di maltrattamento». La dottoressa Scafariello è in servizio presso il centro di salute mentale di Monterotondo (dove si lavora a programmi di prevenzione della devianza giovanile) «e dove registriamo, come ogni struttura pubblica, un aumento delle urgenze. Per far fronte a questo, si deve garantire una continuità di trattamento agli adolescenti superando il limite dei 18 anni che separa l'utenza del servizio materno infantile da quella dei centri di salute mentale. Oggi ai ragazzi si impone la coesistenza con i bambini da un lato e con gli adulti dall'altro».