L'ultimo dubbio etico dei medici: salvare anche chi non lo merita?
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di Enza Cusmai
Gareth ha solo diciannove anni ma giace in fin di vita in un letto del King's College Hospital di Londra con un'epatite acuta. Durante un fine settimana con gli amici aveva bevuto 30 lattine di birra. E il fegato, già provato da tante sbornie, non ha retto. I dottori non scommettono sulla sua sopravvivenza. Potrebbe morire entro 15 giorni. Lo sottopongono a esami clinici e biopsie, lo seguono, ma il trapianto di fegato, la sua ultima speranza, gli è stata negata. Per lui non c'è spazio. È un soggetto che non dà garanzie, perché non ha dimostrato di poter stare sobrio per almeno sei mesi consecutivi. La diagnosi sembra quasi una sentenza a morte. E suo padre, Brian, ha deciso di giocarsi l'unica carta che gli rimane per salvargli la vita. Portare il caso in tribunale sollevando un problema etico e giuridico di dimensioni internazionali. «Bisogna fare un'eccezione, le linee guida per i trapianti valgono per gli adulti e non per i giovani che hanno tutta la vita davanti». Brian si dispera così come i genitori di Gary, un altro giovane di 22 anni, morto il 20 luglio scorso, anche lui era stato scartato dai candidati al trapianto. E anche lui viveva in Inghilterra, dove l'alcolismo tra i giovani è diventato una piaga sociale, i donatori di organi scarseggiano e le richieste sono in continuo aumento. E così le indicazioni per la scelta dei pazienti sono diventate rigide: nessun trapianto per chi non dimostra ravvedimento. I medici, in fondo, si trasformano in padreterni, decidono con un segno di penna chi può sopravvivere e chi è destinato a morire. Alessandro Nanni Costa, direttore del centro nazionale trapianti, critica l'intransigenza inglese. «In Italia è diverso - rassicura -. Noi usiamo metodi umani e non matematici, per noi i sei mesi di astensione dall'alcol non sono una condizione indispensabile. Sono contrario agli automatismi, dobbiamo innanzitutto guardare le persone». Sul caso di Gareth il medico accenna una critica. «L'astensione dall'alcol di un paziente che va trapiantato ci deve essere, ma non sappiamo cosa è successo in questi sei mesi prima dell'ultima sbornia. È stato seguito dal servizio pubblico nel percorso di riabilitazione?». I dubbi sul caso Gareth sono tanti. Lo ammette anche Luciano De Carlis, direttore della struttura di chirurgia e trapianti al Niguarda di Milano. «Io avrei grosse perplessità a non operare un 19enne che ha avuto un'epatite etilica, la sua potrebbe essere una situazione occasionale. In Inghilterra sono un po' troppo rigidi. Noi, piuttosto, buttiamo via un fegato ma cerchiamo di salvare una vita». De Carlis ne ha visti tanti di casi drammatici come la ragazza con un'epatite fulminante causata dall'ectasy. «Forse in Inghilterra non l'avrebbero operata. Io l'ho trapiantata e ora, dopo 10 anni, sta benissimo e non si droga più. Non si possono applicare regole ferree sulla vita dei giovani». Non tutte le operazioni finiscono però con un lieto fine. Giovanni Vizzindi, direttore del dipartimento dei trapianti di fegato dell'Ismett di Palermo, cerca di offrire una chiave rigorosamente scientifica. A costo di passare per cinico. «Chi ha un'epatite alcolica acuta ha una probabilità di sopravvivenza minima, non superiore al 50%. E non si possono sprecare dei fegati preziosi. Il 30% dei malati in lista di attesa nel mondo muore, quindi bisogna fare una selezione su basi scientifiche, l'etica non può entrare». E la scelta di scartare una giovane vita? «Vale più la vita di un ventenne - incalza il medico - o quella di un 45 enne che svolge un lavoro importante per la comunità oppure il 50enne che ha quattro figli?».