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La dipendenza come moda: sullo stesso piano droghe, cibo e ossessioni

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La dipendenza come moda. Sullo stesso piano droghe, cibo e ossessioni


Negli Stati Uniti dalla fine del 2010 va in onda My Strange Addiction («La mia strana dipendenza»), un programma a metà tra il reality show e il documentario, dove ci viene chiesto di considerare «drogati all'ultimo stadio» uomini e donne che di sostanze stupefacenti non abusano affatto. Anzi, non le hanno mai toccate. I loro problemi sono altri. Non riescono a smettere di mangiare l'imbottitura del divano in soggiorno. Oppure mettono la salsa tartara su ogni genere di cibo, anche a colazione. Una persona vive circondata da decine di orsacchiotti di pezza che tratta come figli, un'altra passa sei ore al giorno lucidando la vasca da bagno. Quindi vengono portate in scena una vasta gamma di abitudini anti-sociali (o disturbi di natura ossessiva) come se fossero altrettante dosi di eroina, tutte potenzialmente fatali. Magari proprio le ultime.


Ora, stando a quanto hanno detto alcuni partecipanti a My Strange Addiction, l'intensità di questi disturbi sarebbe stata amplificata dal
montaggio finale del programma, ma diamo per scontato che 22 minuti di televisione non siano sempre il riassunto più fedele di una settimana di riprese. In un caso simile, tenendo conto che la rappresentazione è in partemediata, si potrebbe discutere sulla responsabilità e sulla consistenza professionale degli psicologi che intervengono durante l'episodio, e applicano il timbro «dipendenza» a situazioni come il farsi crescere le unghie per vent'anni. Però, poi, all'addict di turno non viene mai suggerito (o intimato) un ricovero ospedaliero, un periodo da passare in comunità terapeutica. E nemmeno una visita a un gruppo di auto-aiuto, di quelli nati sul modello di Alcolisti anonimi. Le soluzioni proposte sono molto più domestiche: «tenere un diario», «cercare nuovi hobby». Cose fattibili senza uscire dalla propria cucina o coinvolgere amici e parenti.


Davanti a certi scenari, qualcuno non vuole perdere tempo, e archivia tutto alla voce «roba da americani». Non lo è, come non lo è la spettacolarizzazione di un disordine. Quello a cui stare attenti, e che fa parte anche della nostra lingua, è lo scivolamento del significato. Siamo di fronte a una forma di turismo della parola, per cui definire se stessi dipendenti da qualcosa rientra in un percorso di abbellimento e nobilitazione della vita quotidiana. Tanto quanto, una volta, si citavano tra le proprie passioni «viaggiare» e «conoscere gente».


Non viene più considerato necessario avere un rapporto diretto con l'abuso di sostanze, qualsiasi sostanza: si accetta un'idea generica per cui «tutto provoca dipendenza», mentre il dibattito tra specialisti può proseguire a lungo senza forti modifiche agli strumenti diagnostici di base (la prossima edizione del manuale Dsm, diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sistemerebbe il gioco d'azzardo in una categoria a parte, «dipendenze comportamentali»; non è ancora considerata patologia autonoma la dipendenza da Internet, su cui l'ospedale Gemelli di Roma ha attivato un ambulatorio nel 2009). Ma nessuno sta cercando una diagnosi, poi. Non veramente. L'importante è vantare la propria posizione di debolezza rispetto a un corpo estraneo, qualcosa fuori da sé, che prende tutte le decisioni. E dato che nessuna dipendenza è uguale alle altre, come nessun percorso di recupero chiede per forza di identificarsi con i termini «possessione» e «liberazione», può diventare difficile rivendicare l'importanza di un significato rispetto agli altri (e diventa difficile rispondere alla seguente domanda: «Stai dicendo che io non sono totalmente dipendente da Facebook? Ma se ci passo otto ore al giorno! Se non è dipendenza questa, allora cos'è?»).


Un'altra differenza cruciale, rispetto al vecchio genere di attrazione verso l'addiction: il desiderio non è legato agli eccessi, alle forti emozioni associate a uno stile di vita quando lo si guarda dal buco della serratura. Pensate alle disavventure pubbliche di Amy Winehouse, e a quanto tempo c'è voluto prima che il suo abuso di farmaci e alcol non fosse più assimilato al suo essere «una scatenata», una con la schiena tatuata e il marito rissoso. Adesso quello che si considera desiderabile, seducente è l'assenza di potere decisionale. A patto che resti confinata alla superficie. E che non ci si sporchi le mani.


In qualche locale pubblico, accanto ai videopoker, cominciano a spuntare volantini che consigliano i clienti sul da farsi, «quando ci si accorge di stare esagerando». Per calcolo o per Dna sociale, il problema del gioco viene collegato al superamento di un limite. Quale, però, non è dato saperlo. E quando ci si sente dire «be', in fondo siamo tutti dipendenti da qualcosa... io ad esempio non posso iniziare la giornata senza un bicchiere di succo d'arancia», nulla stabilisce quale reazione sia più accettabile, tra l'alzare gli occhi al cielo e il rispondere che raramente Facebook o il succo d'arancia portano chi ne fa uso a riprendere i sensi in un corridoio di pronto soccorso. Ma attenzione: chi appoggerà sul piatto la propria esperienza concreta si sentirà imputare di aver reso lo scambio «deprimente», o «troppo tossico». Materiale da terza serata televisiva, quando i bambini dovrebbero già essere a letto.


Nel 2010 Morgan, intervistato, raccontava, tra le altre cose, di fumare cocaina ogni giorno. «Me ne faccio di meno», diceva, «ma almeno è pura». Il musicista avrebbe poi sostenuto che le sue dichiarazioni erano state stravolte, che stava parlando del passato, non del presente. Non importa. Il problema, lì, stava nell'ammissione di un consumo quotidiano reale, da parte di una persona adulta che non definiva quel consumo «una dipendenza». Fu quindi chiesto che Morgan venisse messo al bando dalla tv italiana, a partire dal Festival di Sanremo a cui, allora, stava per partecipare. Un giudizio collettivo implacabile, arrivato proprio nelmomento in cui la parola «dipendenza» iniziava a prendere una nuova forma, ad esempio nelle interviste in cui al posto di «Sono pazzo di lei» o «La amo così tanto» si dice «Sono dipendente dalla mia ragazza». Senza alcuna reazione da parte di chi leggeva.


Violetta Bellocchio lettura.corriere.it/la-dipendenza-come-moda/


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)