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Medici italiani sempre più stressati: molti si rifugiano in alcol e droga

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Sanità: medici sempre più stressati, in Italia 5 mila si rifugiano in alcol e droga
Roma - Medici italiani sempre più stressati. La paura di commettere errori, i turni a volte massacranti, il timore di

ritrovarsi 'a spasso' o in pensione troppo presto, possono risultare fardelli troppo pesanti da sopportare. Soprattutto sulle

spalle di quei camici bianchi più fragili che, nella maggioranza dei casi, non volendo o non sapendo a chi rivolgersi,

rischiano di precipitare nel 'buco nero' della depressione. Sono infatti almeno 5 mila i medici italiani che, smarriti e

sotto stress, si rifugiano in alcol e droghe, soprattutto cocaina. Un numero che fa impressione, se si pensa che si tratta di

professionisti che si occupano della salute dei cittadini.
E' l'ultima fotografia sui medici italiani colpiti da burnout (dipendenza patologica professionale), una malattia pericolosa

che, se non curata, può portare anche a soluzioni estreme. A scattarla è Beniamino Palmieri, professore di chirurgia

dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del progetto 'Medico cura te stesso', network che ha,

tra gli obiettivi, proprio la tutela dei camici bianchi che si ammalano o che vengono colpiti da bornout. Il fenomeno

riguarda in Italia il 30% dei medici over 50. Praticamente 1 su 3.
Lo scenario - illustrato in anteprima all'Adnkronos Salute - verrà presentato dettagliatamente nel corso del II convegno

nazionale del network coordinato da Palmieri, in programma il 4 e 5 marzo a Milano. "I medici - spiega Palmieri - nonostante

abbiano dei livelli di mortalità inferiori rispetto alla media della popolazione, hanno però, un rischio maggiore d'essere

affetti da alcuni problemi di natura fisica e psicologica. Chi esercita questa professione, rispetto alla media della

popolazione, è maggiormente interessato da una o più delle tre 'd': drugs, drink and depression, vale a dire farmaci,

alcolismo e depressione, compreso il suicidio".
Non è un caso che, in tutto il mondo, il tasso di suicidi tra i camici bianchi è due volte superiore a quello della

popolazione generale tra gli uomini e addirittura quattro volte tra le donne. Numeri da brividi, che hanno origine proprio

dalle dipendenze legate alla professione. "Il burnout - spiega Palmieri - è una sindrome caratterizzata da stress lavorativo,

esaurimento (tensione emotiva, ansietà, irritabilità ovvero noia, apatia, disinteresse), conclusione difensiva (distacco

emotivo dal paziente assistito, cinismo, rigidità)". A rimanerne colpiti, tra i medici, sono in tanti: "Si stima - sottolinea

l'esperto - un 30% dei camici bianchi con più di 50 anni".
A farne le spese sono soprattutto anestesisti, chirurghi, ginecologi e medici del pronto soccorso, in maggioranza uomini

(nell'80% dei casi). "Tutti medici - spiega Palmieri - sottoposti a grande stress. Molti lavorano 50-60 ore a settimana, ma

il sovraccarico non è solo di fatica: c'è quello emozionale e, sempre di più, c'è il peso della burocrazia e dei conflitti

tra colleghi. A tutto ciò si sommano fattori culturali che rendono più difficile per i dottori chiedere aiuto".
E infatti sono davvero pochi quelli che lanciano una sorta di Sos. Si contano sulle dita di una mano. "Circa il 99% dei

camici bianchi in difficoltà - sottolinea l'esperto - non vuole o non sa a chi rivolgersi. Di questi - aggiunge - il 45% si

autocura". E resta al lavoro. "La quasi totalità, anche tra quelli che fanno uso di droga, soprattutto cocaina, e alcol,

trova una coesistenza tra professione e abusi".
A finire nel tunnel della dipendenza sono soprattutto i medici più bravi e stacanovisti. "A cadere nella trappola - spiega

Palmieri - sono proprio i camici bianchi che dedicano tutta la loro vita al lavoro. Sempre pronti a correre in ospedale e

sostenere turni massacranti". Professionisti 'scoppiati' che iniziano a essere depressi e a rifugiarsi nell'alcol o nella

droga o in entrambi.
Svariate le forme depressive. "Ci sono - spiega l'esperto - quelle che si manifestano con rabbia e irritabilità. E ancora,

casi in cui prevalgono mal di testa, nausea, disturbi del sonno". Le conseguenze di questo quadro clinico non possono non

riflettersi anche sull'attività medica. "Aumenta ad esempio - afferma Palmieri - il rischio di ferirsi con un bisturi, o di

pungersi con una siringa". A rimetterci è anche il rapporto con il paziente. "Studi scientifici - aggiunge l'esperto - hanno

infatti dimostrato che un medico stressato non solo è meno disponibile al dialogo, ma rischia più facilmente di commettere

errori, anche fatali".
Per far fronte a questo tipo di problemi ci si dovrebbe rivolgere a strutture assistenziali pubbliche, ma non è così

semplice. "Il più delle volte - spiega Palmieri - il medico non chiede aiuto, perché ha paura di essere riconosciuto e di

avere ripercussioni sulla carriera". C'è poi un altro fattore che non facilita la risoluzione del problema. Non tutti i

medici colpiti da burnout sanno davvero di trovarsi in difficoltà. "C'è un 15% di camici bianchi che ignora di esserne

colpito. E circa il 18% convive con uno stato cronico di depressione". Intanto, a fronte di dottori inconsapevoli e di una

rete di assistenza debole, il fenomeno cresce. "Negli ultimi cinque anni - spiega l'esperto - il burnout nel nostro Paese è

aumentato ogni anno dell'1%".
Un trend che sembra trovare conferma in alcuni episodi balzati di recente alle cronache, con medici protagonisti di strane

storie. L'ultimo caso in ordine di tempo è quello di una guardia medica di 58 anni che, a Roma, beveva durante il servizio.

Avrebbe dovuto rispondere al telefono dell'ambulatorio e all'occorrenza curare i malati, di persona oppure dando indicazioni

via cavo. Invece era spesso ubriaco. Oppure non c'era, avendo l'abitudine di anticipare di parecchio il suo orario di fine

turno.
Fatto sta che si è ritrovato imputato in un'aula del tribunale di Roma, con l'accusa di interruzione di servizio di pubblica

utilità e minacce nei confronti dei suoi colleghi che, dopo mesi di sopportazione, lo avevano denunciato provocandone la

sospensione. E lui, per vendicarsi, aveva cominciato a telefonare a tutte le ore, sulle linee riservate alle emergenze

sanitarie, per riempirli di minacce e di improperi.
Un altro camice bianco finito recentemente sulle pagine dei giornali per motivi tutt'altro che medici è quello che, in

servizio in un pronto soccorso del napoletano, è stato sorpreso dai Carabinieri a comprare cocaina. Ma in fatto di droghe

l'episodio che ha fatto più scalpore si è registrato a dicembre a Galatina, in provincia di Lecce, dove il direttore

sanitario dell'ospedale 'Santa Maria Caterina Novella' ha addirittura inviato una circolare interna per ammonire il personale

medico e gli infermieri a non fare uso di cocaina durante l'orario di servizio. L'invito era stato rivolto dopo alcune

segnalazioni anonime giunte alla direzione sanitaria del nosocomio salentino. A pagarne il conto è stato però proprio il

direttore sanitario, che è stato sospeso dalla direzione generale dell'Azienda sanitaria.
Naturalmente il problema è internazionale e varca i confini italiani. Anche se negli altri Paesi sembra esserci una maggiore

attenzione al fenomeno. "In Italia, da questo punto di vista siamo indietro", sottolinea Palmieri. "Manca un monitoraggio

attento del fenomeno. Il ministero della Salute del Galles - aggiunge - sta ad esempio compilando un registro dei medici e

studenti di medicina che hanno avuto esperienza di malattie psichiatriche o di abuso di sostanze, in modo da stabilire come

queste persone possano continuare a lavorare o studiare proteggendo l'interesse pubblico".
Nel corso del II congresso del network 'Medico cura te stesso', verranno presentati anche altri studi internazionali sulla

materia. "E' stato svolto - spiega Palmieri - uno screening sui medici australiani e neozelandesi attraverso un questionario

di valutazione dell'ansia e della depressione, che ha evidenziato come i più alti livelli di stress si potessero riscontrare

fra i medici di famiglia, rispetto alla media della popolazione. Conclusioni simili sono risultate da uno studio condotto in

Gran Bretagna in cui si ricercava una correlazione tra la personalità e l'attività lavorativa, mediante un questionario

relativo ad ansia e depressione nei medici di base".
I risultati dell'indagine sono eloquenti: "Si è notato - spiega l'esperto - che i casi di depressione (10% non grave e 16%

borderline) erano statisticamente associati alla mancanza di tempo libero a causa del lavoro stressante per le continue

richieste dei pazienti, alla quantità ingente di telefonate, a una vita frenetica, all'essere single e senza figli, all'abuso

di alcol, all'obesità, a una carriera insoddisfacente e a lavorare in ambienti poco stimolanti".