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National Academy of Sciences: sostanze allucinogine ed effetti sul cervello

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La chimica psichedelica: un principio attivo dei "funghi magici" controlla (in qualche modo) l'attività del cervello

Nonostante una lunga storia di utilizzo nelle cerimonie di guarigione, in riti tesi all'espansione della mente ed "all'apertura di porte

della percezione", le sostanze allucinogene presenti nei "funghi magici" sembrano provocare al contrario diffuse diminuzioni dell'attività

cerebrale, secondo quanto riportato da alcuni ricercatori e pubblicato negli Atti della National Academy of Sciences USA (Carhart-Harris RL

et al. 2012).
La psilocibina, la cui azione è dovuta all'attivazione dei recettori della serotonina, è stata apprezzata per secoli per la capacità di

indurre esperienze mistiche ma essa presenta anche un potenziale valore terapeutico in varie patologie psichiatriche. In uno dei pochi studi

di questo tipo, David Nutt, un neuropsicofarmacologo che lavora presso l'Imperial College di Londra, insieme ai suoi collaboratori ha usato

la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per monitorare i cambiamenti nell'attività cerebrale che si registrano durante la transizione dalla

coscienza normale allo stato psichedelico indotto dalla psilocibina. Lo studio è stato effettuato reclutando 30 volontari, tutti individui

esperti nell'uso di sostanze allucinogene, e scansionato il loro cervello due volte: una volta dopo che ai partecipanti era stato

somministrato un placebo (solo acqua e sali) ed un'altra volta dopo iniezione di una piccola dose di psilocibina, che, in pochi secondi, ha

innescato un breve "viaggio". E' stato quindi osservato che, nonostante si ritenga comunemente che le sostanza psichedeliche "aumentino

l'attività cerebrale", la psilocibina causa in effetti un rallentamento di attività in aree dotate di connessioni più dense, soprattutto a

livello della corteccia mediale pre-frontale (mPFC) e la corteccia cingolata anteriore e posteriore (ACC e PCC, rispettivamente). Le

scansioni hanno mostrato una riduzione delle connessioni funzionali tra il mPFC e PCC, in modo che la loro attività, normalmente sincrona, è

risultata "de-sincronizzata".
Nel 1954, lo scrittore Aldous Huxley (che aveva notoriamente sperimentato sostanze psichedeliche) nel suo libro "Le porte della percezione",

suggeriva che le droghe producessero un diluvio sensoriale attraverso l'apertura di una sorta di "valvola di riduzione" nel cervello,

deputata in condizioni normali alla limitazione delle nostre percezioni. In accordo, Karl Friston del University College di Londra sosteneva

che il cervello, per permettere una migliore rappresentazione del mondo, funzionasse attraverso una limitazione delle nostre esperienze

percettive. Le nuove scoperte sembrano in accordo quindi con l'idea che queste sostanze abbiano una qualche attività modulante su queste

funzioni di repressione.
Nutt e collaboratori suggeriscono che i loro risultati potrebbero spiegare alcuni degli effetti terapeutici della psilocibina. La depressione

comporta iperattività nei mPFC, che porta alla visione pessimistica ed al rimuginare patologico caratteristico della condizione, così la

disattivazione della mPFC potrebbe alleviarne i sintomi. Gli autori hanno anche osservato una riduzione del flusso di sangue a livello

ipotalamico, suggerendo che questo potrebbe spiegare alcuni resoconti aneddotici secondo i quali le sostanze psichedeliche allevino i sintomi della cefalea a grappolo, che è associata ad una aumentata attività ipotalamica.
Tuttavia, non tutti sono d'accordo con questi risultati e con la loro interpretazione, a segnalare quanto le argomentazioni in questo campo

siano ancora fluttuanti e contraddittorie.
Franz Vollenweider presso l'Università di Zurigo in Svizzera riferisce, infatti, di avere completato studi simili e di avere sempre visto, al

contrario, l'attivazione di quelle stesse aree che lo studio di Nutt e coll. riferisce depresse. Alcune differenze potrebbero essere

associate a tempi differenti di scansione nei due studi o alla differente via di somministrazione (nello studio di Vollenweider, la

somministrazione era per via orale) e/o al dosaggio delle sostanze.
Secondo Keith Laws, invece, un neuropsicologo cognitivo dell'Università di Hertfordshire, i risultati potrebbero essere spiegati in altro

modo. "La disattivazione di mPFC e PCC è legata all'ansia e alla anticipazione di esperienze piacevoli e spiacevoli," dice. "Quella era una

situazione stressante, anche per tossicodipendenti con esperienza e ho il sospetto che gli autori di quello studio abbiano piuttosto misurato

delle variazioni funzionali correlate a quell'ansia."


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)