Prevenzione alle dipendenze e al consumo di sostanze: l'informazione per la prevenzione nella società dell'individualismo
Prevenzione alle dipendenze e al consumo di sostanze: l’informazione per la prevenzione nella società dell’individualismo
Quelle che seguono sono asserzioni, di cui ci si assume la piena responsabilità, con l'intento di porre alcune questioni
inerenti l'impegno quotidiano di educatori nel campo della prevenzione e della promozione della salute. Potremmo porci
l'interrogativo, latente nel titolo, anche da un'altra angolatura: cosa fa oggi la maggior parte dell'informazione? Viene
ricercata una coincidenza tra il "pensare preventivo", con un preciso impianto progettuale e informativo, e l'effetto
desiderato di risposta da parte del target? Vi è forse una comprensione che l'habitat informativo stesso deve crearsi in una
dimensione dialogica, che non può prescindere da un apprendimento su un piano formativo? L'impressione è che, quando si
progetta l'informazione preventiva, il cuore auspichi la seconda ipotesi, ma la tela razionale e positivista ancora dominante
finisca per imbrigliarla nei concetti di "esattezza" o "correttezza" quali sinonimi di risultato efficace. L'ansia di un
risultato che sia appunto "esatto" condiziona non poco le strategie messe in campo, obliando quasi del tutto la suddetta
ricerca di una condivisione dialogica e quindi di una più ampia formazione. Questo è un enigma che, da operatori della
prevenzione, ci si pone costantemente di fronte quando ci accingiamo a condividere un'esperienza con i ragazzi di una scuola.
La prima rassicurazione che ci forniamo è che quanto emergerà nelle scelte comportamentali positive o "protettive" dei
ragazzi sarà il prodotto di un'autonoma presa di posizione; la seconda è che quelle scelte saranno fondative e durature oltre
che "contaminanti" nei confronti di altri ragazzi. La terza rassicurazione è che gran parte dell'esito auspicato sia da
attribuire, comunque, al buon bagaglio di informazioni, che hanno pervaso il campo interattivo, a volte saturandolo. E' da
questo punto di partenza, quasi un bisogno di comprensione del senso del nostro operare, che nascono i nostri quesiti. I
dubbi investono gli obiettivi della prevenzione e dei suoi strumenti informativi: coniugare l'informazione e i suoi limiti
intrinseci, con la trama individualistica e individualizzante della società, ci spinge a scoprire aporie come l'oscillazione
tra desideri di generalismo (tipici della prevenzione universale) e desideri di specificità (tipici invece della prevenzione
selettiva o mirata); soprattutto, rimane inevasa l'esigenza di una apertura di senso laddove l'individuo, scisso tra istanze
antropologiche di individualizzazione e pressioni sociali di omologazione, viene invitato a tutelare non tanto le espressioni
e le spinte esistenziali, quanto i frammenti di una corporeità a rischio, con il risultato di incrementare la segmentazione
del suo mondo, interno ed esterno.
Il problema principale sembra essere proprio l'attuale ambivalenza tra una prevenzione generica, che ingenuamente si suppone
adatta a qualunque contesto e qualunque target, e, viceversa, l'offerta di informazioni troppo dettagliate e specialistiche,
complesse ed inaccessibili a molti. In questo senso la prevenzione, corroborata dai suoi vessilli informativi, non agisce al
di fuori di un perimetro
ideologico scientista, di un rimedio che potremmo definire eteronomo, perché stabilito per decreti sociali o politici, e che
viene cucito addosso alle persone come medicina individuale. Subentra così, per effetto di una generale tendenza alla
medicalizzazione, la pretesa del curare rispetto al più completo ed efficace prendersi cura. Prevalgono logiche di
informazione dall'alto (top-down), ora gettate a pioggia nella speranza che attecchiscano ovunque, come vuole il generalismo,
ora invece coniugate nell'eccessiva specificità, che risulta altrettanto forzosa ed estranea.
Solitudine, atomismo, de-socializzazione: questa, lo abbiamo detto, è la condizione che intride le esistenze di uomini e
donne, giovani e meno giovani, ragazzi e ragazze. Le dipendenze, di cui tanto si parla, sono sinonimi di un freudiano
"ritorno del rimosso", fronteggiate con le armi spuntate sia della prevenzione, sia della cura, che lasciano inalterate le
caratteristiche ambivalenti dei sintomi, ora mutevoli, ora ricorsivi. Si fa largo, invece un bisogno ossessivo di elencare e
classificare i comportamenti, di dipendenza e non, con sempre nuove etichette: le drunk-anoressie, la Internet addiction, e
via discorrendo, in un vaso pressoché senza fondo. Nessuno si pone il problema, tuttavia, di quanto poi queste stesse
etichette siano adeguate a rappresentare realtà differenti, ma che condividono, all'origine, le stesse ragioni: l'isolamento
degli individui, l'atomizzazione della realtà sociale, la disgregazione dei legami e delle forme di partecipazione spontanea,
l'induzione di falsi bisogni, la ricerca della performance e della soddisfazione immediata, ed altri fenomeni tipici della
contemporaneità. L'illusorietà di poter individuare semplicemente dei sintomi esteriori e di analizzarli in modo pervicace ed
ossessivo, non è altro che l'espressione di una cacofonia di azioni epifenomeniche, costantemente lontane tanto dalla
comprensione dell'unità fenomenologica (ed ontologica) delle esistenze, quanto da una profonda e doverosa comprensione della
situazione storico-culturale attuale. Ne emergono sforzi informativi probabilmente destinati a risultare inefficaci, sia
perché incapaci di giungere alla radice più profonda del problema, sia perché calati dall'alto nell'erronea convinzione che
saranno compresi e condivisi.
Roberto Buzzi e Marco Vagnozzi, settore Prevenzione e promozione della salute, Centro di Solidarietà di Genova
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