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Problematiche alcolcorrelate in ambiente penitenziario

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Problematiche alcolcorrelate in ambiente penitenziario

MASSIMO CECCHI
SERT-GOA Dipartimento Dipendenze, Azienda USL 10, FIRENZE

All’interno delle Problematiche e Patologie Alcol Correlate (PPAC), uno spazio specifico e non tra-
scurabile è costituito dalle PPAC nell’istituzione Penitenziaria. In questi ultimi anni tale fenomeno è
stato più volte evidenziato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dagli operatori della
Sanità che lavorano nel campo. Nel contempo emerge la difficoltà a definire la portata
reale del problema, data la mancanza di dati epidemiologici a riguardo e la complessità che il fenomeno
assume nello specifico contesto.
In questi ultimi dieci, quindici anni, si è andata modificando la tipologia della popolazione carcera-
ria: una percentuale sempre più alta di detenuti ha problemi connessi alla tossicodipendenza e somma le
difficoltà legate alla carcerazione a quelle dovute alla condizione di tossicomane, molti sono i sieroposi-
tivi e i casi di AIDS; i reclusi di nazionalità straniera sono notevolmente aumentati ed è cresciuto il
numero dei detenuti che presentano problemi di evidente psicopatologia. Questo ha comportato un note-
vole aumento della componente psicologica del disagio in carcere, con un aumento di interventi tratta-
mentali finalizzati all’appoggio, al sostegno di queste categorie deboli e tesi a tutelare l’incolumità fisica
e psichica dei detenuti.
Alla “normale” utilizzazione dell’alcol tipica della nostra cultura, sempre più spesso se n’è aggiunto
l’uso e l’abuso da parte di queste “nuove” tipologie, con finalità diverse- strumentali, di “automedica-
mento”, di evasione, ecc.. Ciò amplifica le problematiche espresse da questi soggetti, creando sofferenza
e problemi nella gestione da parte del personale penitenziario.
I detenuti stranieri che si vengono a trovare in una cultura diversa dalla loro “scoprono” subito i
“benefici” dell’alcol, di questo “farmaco” per lenire le proprie angosce e la nostalgia. I soggetti tossico-
dipendenti, una percentuale stimata in circa il 29% della popolazione detenuta, sostituisco-
no con l’alcol e/o gli psicofarmaci la propria droga elettiva non disponibile. Alcuni aumentano o iniziano
a bere al momento della carcerazione per affrontare l’astinenza dall’eroina.
Una parte di questi soggetti si connotano come veri e propri politossicomani. In questi anni si è
assistito, infatti, al manifestarsi e diffondersi del fenomeno della poliassunzione di sostanze psicoattive e
della politossicomania, che vede l’uso contemporaneo e/o simultaneo di molte sostanze: alcol, amfeta-
mine, benzodiazepine, cocaina, eroina, ecstasy, “pasticche” di ogni tipo. L’utilizzo dell’alcol è una co-
stante da parte di questi soggetti che nel carcere lo affiancano, molto spesso, al consumo di psicofarmaci.
Infine a costoro si aggiunge una percentuale di individui già alcoldipendenti al momento dell’ingresso.

Alcol e problemi complessi
Gli operatori penitenziari e della sanità stanno facendo i conti anche con questa realtà, che riguarda
principalmente le fasce più giovani della popolazione detenuta e ci si sta attivando, in collaborazione
anche con il volontariato, per affrontare il fenomeno costituito dalle PPAC sia sul versante della popola-
zione detenuta (prevenzione, cura e riabilitazione) che su quello degli operatori (formazione).

Motivazioni all’uso/abuso/dipendenza di alcol in carcere.
Ma che cosa avviene nel carcere circa l’uso di alcol? Peccando di retorica, si può dire che il carcere
rispecchia e amplifica ciò che si verifica nella società libera. Quindi riguardo al “problema alcol” si vede
come in carcere gli uomini che ci vivono, bevono e hanno problemi simili a quelli che si riscontrano
all’esterno, ingigantiti dalla condizione che la reclusione comporta. Il detenuto, perdendo la libertà, vie-
ne emarginato dalla vita che ha condotto sino ad allora, dalla famiglia, dagli affetti. A ciò si aggiungono
le difficoltà di adattamento dovute all’incontro con le regole dell’istituzione (la disciplina, gli orari, le
mansioni) e alla conflittualità con gli operatori penitenziari e gli stessi compagni.
La situazione delle strutture penitenziarie nel nostro paese, l’aumento della popolazione penitenzia-
ria, la carenza di occupazione lavorativa e di attività ricreative causano ulteriori difficoltà al soggetto
istituzionalizzato.
La concomitanza di tutti questi fattori provoca una condizione che equivale ad una deprivazione di
stimoli sociali e sensoriali, altamente stressante. Ad essa si risponde sempre più spesso con l’alcol e con
gli psicofarmaci.
In carcere ci si può procurare l’alcol con mezzi consentiti e non consentiti. Attraverso l’acquisto:
infatti è permesso di comprarne in misura di 500 ml di vino al giorno e di poter acquistare birra al
cosiddetto “sopravitto”; attraverso lo scambio: infatti tutti comprano alcol e sigarette in carcere, anche
coloro che non bevono e fumano, utilizzandoli come moneta di baratto; attraverso la produzione: si
rilevano episodi abbastanza frequenti di “distillazione” in proprio e di “fermentazione” di frutta con
lieviti; inoltre, si rilevano episodi di furto di alcol.
Si arriva in carcere con la propria “cultura del bere” già acquisita, a volte ci si arriva proprio in
conseguenza del bere, e si continua a bere. Scarsa è anche la conoscenza dei rischi, come ci testimoniano
alcune delle ricerche svolte in proposito (V. De Marco et al. 1989). Può così accadere che nel carcere
l’uso moderato della sostanza, da tutti praticato e consentito dall’Istituzione, sia sostituito gradualmente,
nei soggetti più deboli, dall’abuso e/o dipendenza. Costoro cercano nel bere la risposta alle loro angosce
e sperano che l’alcol li aiuti ad evadere dalla realtà che vivono, a sentire meno la distanza dai loro cari, le
proprie responsabilità e paure. La sofferenza, le difficoltà, la noia, l’ignoranza fanno sì che si ricorra ad
esso per non pensare, per automedicarsi, per stordirsi, “evadere” appunto. L’esito è quello conosciuto:
dopo il momentaneo sollievo, i problemi si ripropongono immodificati, anzi molte volte aumentati dai
provvedimenti disciplinari e giudiziari nei quali si è incorsi durante i momenti di ubriachezza. I detenuti
in situazioni di intossicazione acuta, subiscono rapporti e denunce a causa di comportamenti oltraggiosi
o addirittura lesivi nei confronti degli altri detenuti, degli agenti del corpo della Polizia Penitenziaria e di
sé stessi. Molti comportamenti autolesionistici, tentativi di suicidio e suicidi nella popolazione detenuta
vengono commessi sotto l’effetto dell’alcol.

La sensibilizzazione al problema ha portato molti Istituti a togliere l’alcol da alcune sezioni, specie
quelle per tossicodipendenti, dove vengono somministrati psicofarmaci. Questo, secondo molti operato-
ri, ha ridotto il numero dei casi di autolesionismo e i provvedimenti disciplinari. In alcuni Istituti, stante
la tipologia dei detenuti ristretti, l’alcol è stato eliminato dall’intero carcere, per esempio nelle Custodie
Attenuate (tra gli altri Seconda C.C. Firenze, Empoli, Forlì) e nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di
Montelupo Fiorentino. In questi contesti, il provvedimento è stato improntato a motivazioni chiaramente
terapeutiche e riabilitative. La discussione circa l’utilità di togliere l’alcol da tutti gli Istituti di Pena
ricorre sovente quando si parla di PPAC nell’ambiente penitenziario e fa sorgere schieramenti di opera-
tori favorevoli o contrari. Se questa soluzione porta degli indubbi vantaggi sia per la salute dei detenuti
che per la gestione di essi da parte del personale, va riconosciuto come il fenomeno delle PPAC in
carcere, non può essere ricondotto al solo atto di togliere l’alcol a tutti indiscriminatamente. Questo
provvedimento, inoltre, implica alcune considerazioni di tipo etico, morale, essendo non una scelta volu-
ta dai detenuti, ma un’imposizione che non trova il corrispettivo nei confronti della popolazione libera.
Sono state realizzate interessanti ricerche riguardanti la responsabilità dell’alcol nella commissione dei reati (Campanile V. et al. 1991; Gigli F. et al. 1993; Merzagora I. et. al. 1993; Mastronardi V. 1983).

Per il nostro Codice Penale, l’utilizzo dell’alcol è un’aggravante nella commissione di un reato, non
un’attenuante a meno che non avvenga in un soggetto in stato di intossicazione cronica, là dove si confi-
gura come vizio parziale o totale di mente (Art.92, 94, 95). L’alcol, anche in soggetti non dipendenti,
porta spesso a commettere reati quali: atti di violenza, i delitti sessuali, la resistenza alle forze dell’ordi-
ne, gli incendi, gli oltraggi, le lesioni, le risse, la guida pericolosa, i furti e gli omicidi.
Molti reati collegati alla micro criminalità hanno nell’alcol una concausa accertata.
Se infatti analizziamo alcuni degli effetti dell’alcol, si vede come la sua assunzione, modulandosi
sulle variabili soggettive di ciascun individuo, può comportare la perdita del controllo, la caduta delle
capacità critiche e del senso etico. Ciò può spingere ai comportamenti delittuosi sopra menzionati. L’al-
col è anche utilizzato come “strumento” per la commissione di reati, abbassando i livelli di ansia e
infondendo coraggio. Rappresenta inoltre un “collante sociale” e può avere funzione di identificazione e
coesione in gruppi giovanili devianti (p.es. hooligans).
È evidente come tali comportamenti possono riprodursi anche negli Istituti di Pena, dove possono
essere stimolati e “provocati” da molte situazioni personali e circostanze relazionali. Si beve molto in
carcere, come nel resto della nostra società: parlare, però, di vera e propria alcoldipendenza è cosa con-
troversa.
Secondo molti operatori non ci sono molti “veri” alcolisti in carcere, i cosiddetti “alcolisti primari”.
Questo perché, la nostra società non punisce l’uso di alcol, anzi lo incentiva ed è molto tollerante. Gli
alcolisti che sono incarcerati, in genere lo sono perché hanno commesso reati contro le persone (omicidi,
lesioni) o contro il patrimonio (furti).
Facendo riferimento alla “Indagine Nazionale sui soggetti tossicodipendenti e affetti dal virus HIV
negli istituti penitenziari” del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, indagine che riguarda
anche i soggetti alcoldipendenti, al 31 Dicembre 1997, su 48.209 detenuti presenti nelle nostre carceri, si
contavano 14.074 tossicodipendenti, pari al 29.19% e 596 detenuti alcoldipendenti, pari al 1.24% della
popolazione detenuta.
Tali dati sono ritenuti sottostimare il fenomeno da parte di molti operatori penitenziari.
D’altronde, se è vero che non ci sono molti alcolisti primari nei nostri Istituti, ci sono però moltissimi
abusatori, alcolisti secondari, poliassuntori, politossicodipendenti: individui che potranno divenire alco-
listi con il passare del tempo e ai quali l’alcol provoca già molti problemi.

Il trattamento delle PPAC in carcere.
Sempre più spesso si svolgono trattamenti terapeutico-riabilitativi in carcere per soggetti con PPAC
da parte del personale Sanitario dell’Amministrazione Penitenziaria, delle Aziende Sanitarie, (SERT,
Servizi di Alcologia), del volontariato specifico, (gruppi di auto- mutuo aiuto: Alcolisti Anonimi, AA,
Club degli Alcolisti in Trattamento, CAT). Iniziative si attivano in molti Istituti, con la necessità da parte
degli operatori interni ed esterni all’Istituzione d’impegnarsi in un lavoro integrato e di rete. Infatti è
ormai sperimentato e riconosciuto come il trattamento delle PPAC debba essere attuato attraverso pro-grammi che vedono un’integrazione d’interventi su vari livelli: psicologico, sociale, medico.

Il trattamento multimodale, integrato, vede nei gruppi di auto-mutuo aiuto composti da alcolisti e
familiari, il momento e lo strumento più efficace per raggiungere l’astinenza, affrontare le problematiche che sottostanno alla dipendenza e pervenire ad un cambiamento di stile di vita (Devoto A. 1993). I gruppirappresentano inoltre un elemento fondamentale di integrazione tra il carcere e la comunità territoriale alla quale appartengono: infatti l’Istituto di Pena deve essere visto come parte integrante della comunità locale, in modo che gli individui detenuti e le loro famiglie con PPAC trovino risposte non solo da parte delle istituzioni, ma nel territorio in cui vivono, i gruppi consentono un contatto continuativo di solidarietà con l’esterno e fungono da ponte e da sostegno al momento della scarcerazione.

Il Ministero di Grazia e Giustizia, con la Circolare 558023/14 del 16 Maggio 1997, ha sottolineato
l’importanza dell’intervento nei confronti delle PPAC per i detenuti e indicato come “...è necessario
favorire l’approccio alle esperienze di auto-mutuo aiuto che sono possibili attraverso le associazioni
volontarie per gli alcolisti che si sono dimostrate, per consolidata pratica, essenziali per il recupero e la
riabilitazione degli alcoldipendenti”.
La stessa Circolare sensibilizza le Direzioni dei Carceri a favorire tali interventi.

Una delle metodologie d’intervento che ha trovato una larga e capillare espansione e un unanime
riconoscimento nel nostro paese (più di 2500 gruppi) è costituita dall’approccio ecologico-sociale ai
problemi alcolcorrelati e complessi, elaborato dal prof. V. Hudolin di Zagabria, Hudolin V. 1988). Questo
metodo è centrato sull’utilizzo dei Club degli Alcolisti in Trattamento (CAT), comunità multifamiliari
(gruppi), di alcolisti e familiari. Nel contesto penitenziario va evidenziata la collaborazione tra le Dire-
zioni degli Istituti di Pena, i Centri di Servizio Sociale Adulti e le Associazioni dei Club degli Alcolisti in
Trattamento (ACAT), che ha portato ad esperienze come quelle di Padova, Reggio Emilia, Arezzo, Geno-
va, Verona, Caltanissetta, Trani, Sollicciano H, S. Gimignano. Altre stanno fiorendo in numerosi Istituti.
Inoltre il trattamento dell’alcoldipendenza in ambito carcerario con l’utilizzazione di gruppi di auto-
mutuo aiuto, registra le esperienze, ormai consolidate, portate avanti da Alcolisti Anonimi (AA) e da Al-
anon.Le difficoltà incontrate per questi interventi sono quelle dovute, principalmente, alla necessità della
presenza di persone esterne al carcere (alcolisti non detenuti che presentino un’astinenza elevata e possa-
no portare la loro esperienza nei gruppi, familiari dei detenuti alcolisti, operatori alcologici, ecc.). Inoltre
la collaborazione da parte del personale penitenziario non è sempre facile, essendo questi operatori già
oberati di lavoro, e quindi timorosi di vederlo aumentare a causa dei gruppi. Una parte del personale, poi, non è sensibilizzata riguardo al problema dell’alcoldipendenza e delle PPAC.

Le questioni legate alla sicurezza interna agli Istituti costituiscono una barriera reale o fittizia alla
messa in funzione di questi gruppi, superabile con la collaborazione e la reciproca conoscenza da parte di
tutte le agenzie impegnate a portare avanti l’intervento alcologico (ASL, ACAT, AA, Personale Peniten-
ziario). L’integrazione tra questi diversi soggetti operativi implica, inoltre, il riconoscimento e il rispetto
dei diversi mandati istituzionali (Cecchi, 1995). Va evidenziato come sempre più spesso si trovi questa
intesa e le esperienze possano procedere positivamente. In alcuni Istituti, come Arezzo per esempio, si è
potuto attivare un CAT con la presenza dei familiari. La Circolare Ministeriale sopramenzionata ha ope-
rato in questa direzione. Rimangono le differenze tra le possibilità trattamentali e riabilitative offerte nei
“piccoli” Istituti e gli interventi che si attuano con più difficoltà nei grandi complessi delle aree metropo-
litane. Riguardo alle possibilità offerte dalla legislazione vigente, questa consente a detenuti tossicodi-
pendenti e alcoldipendenti di poter accedere a trattamenti che li aiutino a superare la propria condizione
e a proseguirli in caso che già fossero inseriti in un programma (Art. 89 Decreto n. 309/90, modificato
nell’Art.5 del Decreto n, 139 del 14/5/1993, convertito in Legge n. 222 del 14/7/1993, Art.90) (Testo -
Unico 309/90, Boll, Farmac.Alcolismo 1993).
A coloro che sono condannati ad una pena definitiva, la legge penitenziaria consente di utilizzare
alcune misure alternative alla detenzione per curarsi e riabilitarsi, in particolare, l’Affidamento in Prova
al Servizio Sociale in casi particolari, (Art.47 bis, Legge 663/86, Art. 94 del Testo Unico in materia di
disciplina degli stupefacenti, Decreto n. 309 del 9/10/1990, modificato nell’Art.7 del Decreto n. 139 del
14/5/1993, convertito in Legge n. 222 del 14/7/1993). Questa misura alternativa trova un’applicazione
ancora limitata nei confronti di detenuti con PPAC, se paragonata con la sua utilizzazione da parte dei
tossicodipendenti. Inoltre il detenuto può usufruire del regime di semilibertà, della deten-
zione domiciliare, dei permessi premio.
Esperienze che vedono la presenza di soggetti in misura alternativa alla detenzione che usufruiscono di programmi presso i SERT, i Servizi di Alcologia e in gruppi di auto-mutuo aiuto sul territorio, sono
abbastanza frequenti, anche se si potrebbe giungere ad una più vasta utilizzazione delle possibilità offerte
(Tamburlini, Poldrugo, 1990). I risultati sono spesso confortanti e i soggetti, al di là di una frequente
utilizzazione iniziale dei gruppi come strumento per uscire dal carcere, trovano nel gruppo solidarietà e
aiuti per affrontare la propria dipendenza dalla sostanza, giungere all’astinenza e modificare lo stile di
vita.

Prevenzione alle PPAC in ambiente penitenziario.
La Conferenza promossa dall’Ufficio Regionale Europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
ha elaborato a Parigi (12-14/12/95) la Carta Europea sull’Alcol. Questo documento, tra le 10 strategie
proposte, indica anche quella di: “Promuovere ambienti pubblici, privati e di lavoro, protetti da incidenti,
violenza e altre conseguenze negative dovute al consumo di bevande alcoliche” (Boll. 1998). È necessa-
rio, così, attivare programmi di sensibilizzazione specifici sulle PPAC, che aiutino i soggetti detenuti a
portare avanti un processo di riflessione circa le proprie condotte potatorie, volto a fornire elementi di
autoprotezione e prevenire. l’abuso e l’alcoldipendenza e che conduca, nel caso di soggetti alcoldipen-
denti, all’astinenza e ad un cambiamento di stile di vita (VHO, 1996). Questo appare particolarmente
utile all’interno di tutti gli Istituti, stante i cambiamenti della popolazione detenuta che ho menzionato, e
in particolare in quei carceri che hanno sezioni per tossicodipendenti e/o presentano particolari caratteri-
stiche, quali quelli a regime di “Custodia Attenuata” che ospitano una popolazione costituita da soggetti
giovani, tossicodipendenti da oppiacei e politossicodipendenti. Alcune esperienze sono già in corso da
alcuni anni, come quella di Sollicciano II a Firenze (Cecchi et al. 1997). Tali interventi di prevenzione e
sensibilizzazione raggiungono la loro efficacia maggiore quando si svolgono con modalità di didattica
attiva e si integrano con l’attività dei gruppi di auto-mutuo aiuto e il coinvolgimento della comunità
locale.

 

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)