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News di Alcologia

Quel che resta del West: i cowboy traditi dal petrolio

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di Livia Manera

Il Corriere della Sera.it 25 marzo 2009
«Questa è la storia di Colton H. Bryant e della terra che l'ha allevato. E trattandosi del Wyoming, questa storia è un Western con un cast al gran completo di ragazzini armati che vivono alle porte di una piccola grande città nel ruolo dei cattivi». Ci sono cavalli selvatici che galoppano nei campi di artemisia; uomini silenziosi con la pelle come corteccia d'albero; donne forti e ragazze madri; tori da monta e rodei di provincia; e centinaia di chilometri di altipiani spazzati da un vento che non dà tregua e baciati da una luce impietosa. «Una stupenda aridità annegata nel petrolio», la chiama Alexandra Fuller. Così l'indimenticabile autrice di Don't Let's Go to the Dogs Tonight (tradotto nel 2002 da Rizzoli col titolo Nella terra dei leopardi), uno dei libri più crudeli e toccanti su un'infanzia africana maledetta, descrive in La leggenda di Colton H. Bryant (Mondadori) lo stato dove nasce Dick Cheney e muoiono i discendenti dei cowboy: ragazzini che come i loro padri e i loro nonni cominciano presto a sparare ai cervi, imparano a domare i cavalli selvaggi e a montare i tori, e la domenica se ne vanno a cavallo sulle colline, ma il cui percorso attraverso i riti di passaggio del vecchio West, invece che a un ranch, conduce a un lavoro da roughneck alle basi petrolifere.
Già, perché qui non siamo nel Wyoming di Brokeback Mountain. Qui, nel nuovo libro della passionale, intelligente e furiosa Alexandra Fuller, che oltre a tutto il resto è anche piena di coraggio, siamo in un Western che «come tutti i Western è una tragedia ancora prima di cominciare, perché qui le avversità non hanno mai lasciato scampo. Inutile negare che gli altipiani del Wyoming sono come l'alto mare: riducono alla fame, avari nel difendere la vita, prodighi nel riprendersela. Le croci non si contano». Alexandra - la faccia magra e senza trucco di una bellezza anglosassone, cresciuta in Rhodesia impugnando il fucile - le ha contate. Le ha contate nei giorni in cui scriveva un'inchiesta per il New Yorker sul boom della metanfetamina nelle comunità petrolifere, con conseguente ascesa di alcolismo, tossicodipendenza e violenza domestica. E, prima una, poi due, poi tre, ha contato quattro morti sul lavoro nella sola zona che aveva visitato. E tutte le vittime lavoravano per la stessa impresa. «Colton Bryant era il quarto», racconta con un accento coloniale, che nel Wyoming richiede un traduttore. «E quando ho letto la notizia della sua morte qualcosa mi ha colpito in modo diverso. Innanzitutto aveva venticinque anni, un bambino di tre anni e uno di diciotto mesi. E poi l'articolo diceva che non era mai in ritardo. Che cosa voleva dire, mi sono chiesta?».
La risposta l'ha trovata presto: Colton Bryant, un metro e 87 a piedi scalzi e uno e 93 con gli stivali da cowboy, capelli biondi, aspetto da Sean Penn e occhi di un azzurro innaturale, era un iperattivo, e quindi era stato un pessimo studente e in generale un'imprudente. «Morirò entro i venticinque anni», diceva, e così è stato: cadendo per assenza di una ringhiera prevista per legge da nove metri d'altezza nel campo petrolifero Mesa, impianto n. 455 della società di trivellazione Patterson-Uti, il 14 febbraio 2006, e rimanendo in vita solo il tempo necessario per fare arrivare la madre, il padre, tre fratelli e il suo migliore amico, a tenergli la mano mentre staccavano la spina. Una storia atroce. «Una storia all'ordine del giorno - scatta Alexandra Fuller - nel Wyoming dello sfruttamento petrolifero e dello scempio delle riserve naturali voluto da Dick Cheney perché diventasse come il Texas. E che invece si distingue per il più alto numero di suicidi degli Stati Uniti e per il primato delle morti bianche: 16,8 ogni centomila lavoratori. Lei non ha idea di che cosa significhi vivere in un luogo in cui negli ultimi anni non hanno fatto che dirci che trivellare il terreno violentando il nostro ecosistema era un dovere morale e un'alternativa al mandare altri soldati in Iraq. "La guerra è finita - dicono gli adesivi sui camion -. Ha vinto Halliburton"».
Se Alexandra Fuller si trova qui dopo aver vissuto la durissima vita degli agricoltori bianchi e poveri in Zimbabwe, Zambia, Zaire e Malawi, è perché in Africa ha incontrato un ragazzo del Wyoming, lo ha sposato e ci ha fatto tre figli. In questo territorio immenso che non ha più posto per le mandrie, dove d'inverno i padri trascinano i figli coi pick-up facendoli sciare sui tacchi degli stivali da cowboy; dove i bar non hanno le vetrine perché si possa bere giorno e notte; dove uno scavezzacollo come Colton Bryant può perdersi con gli amici nella neve e fermare un treno per non morire congelato; e dove ogni volta che c'è un boom petrolifero, «la gente arriva con l'ultimo pieno di benzina e col cuore oppresso dal peso di tutti i motivi che si porta dietro per ricominciare daccapo»; proprio qui la maggior parte della gente che si presenta con la targa dell'Oklahoma, dell'Ohio o della Louisiana, non supera l'esame delle urine necessario all'assunzione nei campi petroliferi e finisce a ingrossare le file di chi mangia a spese delle organizzazioni caritatevoli. «Sono tante in Wyoming le cose che ti tirano su e quelle che ti buttano giù», dice Alexandra Fuller. «Metanfetamine, rivendite di alcolici, qualche locale di strip tease e porno a non finire». Ma Colton Bryant è figlio di mormoni. Non beve, non dice parolacce, sposa una ragazza madre e sogna di diventare come suo padre Bill: un roughneck fatto e finito, un duro degli impianti petroliferi. Uno «Che quando gli ho telefonato per dirgli del libro che volevo scrivere, e gli ho chiesto come lo avrei trovato per sapere il suo indirizzo, mi ha risposto: guido un pick-up rosso ciliegia», ricorda Alexandra. «Stava a me trovarlo in città. Nelle interviste, se una domanda lo disgustava particolarmente, sputava a terra e non diceva niente. E io capivo quello che c'era da capire». Parlare con la famiglia Bryant, di quel ragazzo la cui vita era stata così simbolica e così ordinaria, l'ha cambiata, dice Alexandra Fuller. «Più conoscevo Colton e più... - sospira trattenendo un singhiozzo - non so nemmeno come dirlo... negli ultimi anni dell'amministrazione Bush mi sono costruita una corazza di cinismo che mi ha aiutato a sopravvivere. Colton me l'ha strappata di dosso». Oggi Alexandra Fuller si batte per i diritti dei roughneck e per imporre controlli alle misure di sicurezza su cui le società di trivellazione risparmiano. Perché Colton è morto due volte: la prima quando è precipitato mentre andava a prendere una chiave inglese, e la seconda quando un emissario della Patterson-Uti si è presentato all'ospedale dove era attaccato a un respiratore e a una flebo di morfina, e ha chiesto un esame tossicologico per risparmiare anche i 7 mila dollari che sono tutto quanto è dovuto alle famiglie dei caduti sul lavoro.