Rapporto choc: il 12% dei medici ha problemi di alcol o droga e non sa a chi chiedere aiuto
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Lavorano ogni giorno per salvare vite, ma non si rendono conto che sono loro stessi in pericolo. Sono medici autorevoli, primari modello, chirurghi stimati dai colleghi. Ma con un lato oscuro: sono schiavi dell'alcol o di sostanze stupefacenti. Bevono e si drogano quando temono di non farcela, quando hanno bisogno di una carica in più, anche prima di entrare in sala operatoria per un intervento particolarmente complesso.
In Italia non esistono percentuali esatte, ma si stima che la situazione sia analoga a quella della Spagna: il 10% di chi indossa un camice bianco si ubriaca, il 2-3% fa uso di sostanze stupefacenti, cocaina in testa. Non è un vizio, ma una malattia cronica. Una patologia professionale che - al di là dei possibili imbarazzi - ha spinto dieci anni fa l'Ordine dei medici di Barcellona a creare un programma di assistenza e recupero: «El Paime». Una patologia «che in Italia è sottovalutata, se non addirittura sconosciuta», denuncia la dottoressa Paola Mora, responsabile del centro studi Albert Schweitzer che in passato ha affrontato fra i primi, nel nostro Paese, la questione del burn-out, la sindrome che «brucia» l'anima di medici e infermieri a contatto quotidiano con la sofferenza altrui.
Di questo allarme emergente si parlerà per la prima volta a Torino sabato 26, nell'aula magna delle Molinette, durante un congresso nazionale dal titolo emblematico: «Ardere, non bruciarsi - Dalla motivazione alla patologia nelle professioni sanitarie». Obiettivo: fare del Piemonte la prima esperienza di aiuto, prevenzione e riabilitazione per il personale sanitario. «I processi di umanizzazione della cura - sostiene la dottoressa Mora - non possono escludere il trattamento dei curatori. Serve un'azione coraggiosa e intelligente di prevenzione, informazione e formazione, che consideri le difficoltà come parte integrante della professione medica, e non come un vizio colpevole di qualcuno più debole».
In Spagna, come negli Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda i medici in preda ad alcol e droga sanno a chi rivolgersi: i loro nomi sono protetti, nessuno sa che sono in cura. In Italia, denuncia il centro Schweitzer, «le misure adottate sono state esclusivamente centrate sulla punizione degli atti più gravi e noti». Sono soprattutto i medici più bravi a cadere nella trappola di una dipendenza cronica. Lo stress può uccidere. Medici che dedicano tutta o gran parte della vita alla professione, e ne vengono travolti. «Medici - concordano gli esperti - che si alzano a qualunque ora del giorno o della notte per un trapianto, sempre pronti a correre in ospedale per occuparsi di un caso grave, e non riescono a staccarsi con la mente dai pazienti». Dottori modello. Finché arriva (in genere da mogli e figli) il campanello d'allarme.
In Piemonte, il Centro torinese di solidarietà, l'Adimed e lo Schweitzer hanno elaborato il primo progetto destinato al personale sanitario in difficoltà e ai familiari. «Progetto Helper», rimasto sulla carta. «Paradossalmente - osserva Paola Mora - nei piani di recupero dalle dipendenze i medici si ritrovano in una situazione peggiore rispetto agli altri professionisti: primo perché le strutture assistenziali pubbliche create per far fronte ai problemi di dipendenza patologica e salute mentale sono per le loro caratteristiche strutture alle quali il medico non può rivolgersi, poi perché si teme che l'essere eventualmente riconosciuti avrà ripercussioni su lavoro e carriera».
Esperienza insegna che «molti problemi si presentano spesso associati in una doppia patologia: alcol e droga, o depressione, fino al suicidio. Ma la partecipazione a programmi di recupero che mettono in relazione le dipendenze patologiche con il lavoro ottengono un successo superiore al 75%, rispetto a quanto si ottiene con gli altri gruppi sociali trattati, dove il numero dei successi non supera il 50%».