Vini a ridotto tenore alcolico, ultima frontiera dell'enologia: dibattito aperto
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L'ultima frontiera della bottiglia: zero alcol
di Andrea Cuomo
Vini di cinque, due e perfino zero gradi. È l'ultima frontiera dell'enologia, a caccia disperata di nuovi mercati e nuovi
consumatori, che fa naturalmente storcere la bocca ai Paesi tradizionalmente produttori del nettare di Bacco, riuniti in
questi giorni al Vinitaly, il più importante salone del settore al mondo, in corso a Verona. Anche qui di vino più leggero si
parla tanto. Ma un Chianti o un Barbaresco «dealcolizzati» parzialmente o completamente finirebbero per perdere la loro
ragione d'essere. O quasi.
Già, perché secondo Luigi Moio, ordinario di Enologia all'università Federico II di Napoli e produttore a sua volta (la sua
azienda campana si chiama Quintodecimo), almeno un pregio il low-wine ce l'avrebbe. «Quello - spiega Moio - di fungere da
"entry level" per chi il vino non vuole o non può consumarlo». Con il vino più leggero di una birra, nell'epoca in cui la
bevanda al luppolo vede accrescere il suo grado alcolico, si potrebbe insomma introdurre giovanissimi che oggi si sballano
con i «popcoholics» ai preliminari del vino. Insomma, da una malapianta potrebbe nascere un fiore dal bouquet profumato.
Se non esistessero vincoli legislativi, il «vino zero» potrebbe essere imbottigliato anche domani. A spingere in questa
direzione ci sono due lobby: quella dei Paesi nuovi produttori di vino, come Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, che hanno
terreni sconfinati da trasformare in vigne e soprattutto non hanno tutti i lacciuoli legislativi e soprattutto le remore
culturali di Francia, Italia, Spagna; e quella dei Paesi consumatori del Nord Europa, che soffrono di un grave problema di
alcolismo che coinvolge soprattutto fasce deboli della popolazione come le casalinghe.
Ma cosa ci sarebbe in una bottiglia di vino senza alcol o quasi? «Qualcosa che vino non è di certo - risponde secco Moio -.
Se infatti una riduzione fino a due gradi del titolo alcolometrico di un vino tradizionale, ottenibile con pratiche in vigna
o in cantina, non modifica significativamente gli aspetti organolettici del vino di partenza, un vino ridotto a 5, 2 o zero
gradi sarebbe un'altra cosa. Bisognerebbe infatti sostituire tutte le funzioni svolte dall'alcol: quella di stabilizzazione
con dei disinfettanti, quella aromatica con aromi ed edulcoranti». Insomma, si partirebbe da un vino vero che dealcolizzato
in postproduzione diventerebbe qualcos'altro. Fantascienza? «Niente affatto, semmai l'incognita vera è quali problemi
potrebbe creare questo vino-non-vino a quello vero. Secondo me in fondo non molti, dal momento che gli intenditori certo non
preferirebbero mai un vino senza alcol a quello vero». E i meno esperti? «Per loro bisognerebbe fare una comunicazione mirata
e scrivere chiaramente in etichetta quello che stanno per bere».
Certo è che dall'aria che tira qui a Verona, all'edizione n°45 del Vinitaly, il futuro è dei vini più leggeri. Magari non
così leggeri, sempre in doppia cifra, ma certo di gradazione inferiore rispetto alle spremute di alcol che hanno
monopolizzato il mercato negli ultimi anni. Colpa della diffusione nei Paesi del Sud di vitigni adatti a latitudini più
settentrionali, che piantati in zone più calde fanno esplodere l'etilometro, come il Merlot e lo Chardonnay in Sicilia; ma
anche delle mode, dell'equazione struttura uguale qualità, delle guide di settore, che negli ultimi anni hanno regolarmente
premiato vini più impegnativi. E quindi giù tutti a spingere su quella percentuale in etichetta. Ma ora cambiano le mode, gli
stili di vita, le pratiche enologiche. E un vino a 11°-12° gradi potrebbe davvero essere utile per avvicinare i consumatori
al bere quotidiano. Ci credono in Italia, dove molte aziende hanno già imboccato questa strada. Ci credono anche in Francia,
in Germania, in California. Ma qui parliamo ancora di vino. A 5, 2 o zero gradi bisognerebbe inventarsi un'altra parola.