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Workaholic, se il lavoro è un'ossessione

Workaholic, se il lavoro è un'ossessione


Workaholic, se il lavoro è un'ossessione

Pronti a rimandare un impegno familiare pur di portare a termine un lavoro che potrebbero benissimo completare il giorno dopo. In preda ai sensi di colpa quando non lavorano. Sempre connessi tramite il cellulare. Intenti a lavorare anche durante la pausa pranzo. Perfezionisti alla stregua dell'anoressia. Sono i dipendenti da lavoro, ribattezzati dagli anglosassoni workaholics. Sì, perché se lavorare tanto permette di ottenere promozioni e riconoscimenti delle proprie capacità, se si esagera si può arrivare a danneggiare la salute e la vita familiare, con risvolti patologici. Un disturbo che colpisce indipendentemente dal genere e dalla professione svolta, alimentato oltretutto dalla diffusione delle nuove tecnologie. “Essere sempre connessi può dare un senso di potenza o di euforia alla persona, senso che rinforza la già esistente, o incipiente, dipendenza da lavoro”, spiega Andrea Castiello D'Antonio, psicoterapeuta, psicologo clinico e del lavoro.

A non aiutare è anche l'atteggiamento della società, considerato che “spesso si tratta di una dipendenza bene accolta, accettata, spesso rinforzata”. Tanto da essere denominata la “dipendenza pulita”, “anche perché molti workaholics si percepiscono come grandi lavoratori, appassionati del loro mestiere”. “Mi sono reso conto che qualcosa non andava quando ho realizzato che non riuscivo a prendermi del tempo libero dal lavoro”, racconta Paolo, 40 anni, responsabile amministrazione in una multinazionale. “Temevo che nulla sarebbe andato avanti senza di me e questo mi terrorizzava, non permettendomi di staccare mai la mente e di ricaricare le batterie. Non riuscivo inoltre a focalizzarmi sul presente”, prosegue, “ma ero perennemente concentrato sul futuro e riempivo ogni spazio libero che avevo a disposizione”. Ma quali sono le cause alla base di questa patologia e come capire se si è diventati dipendenti dal lavoro? Ne abbiamo parlato con Cesare Guerreschi, psicologo e psicoterapeuta, che opera nel campo delle dipendenze da più di 20 anni ed è esperto in patologie legate anche a quelle che vengono definite "new addiction".

Cos'è che scatena quello che gli anglosassoni definiscono workaholism, ossia "l'alcolismo" da lavoro?
“È un disordine compulsivo che nasce da problemi interni all'individuo, che diventano sintomatici al lavoro: il workaholism è un problema di salute mentale e non una virtù. Un bisogno irrefrenabile che è divenuto ancora più invasivo nella vita di questi soggetti per via delle innovazioni tecnologiche. I workaholic si sentono spesso mariti, padri o figli inadeguati o non all'altezza delle aspettative altrui”.

È possibile stimare quante sono le persone che soffrono di questa patologia oggi in Italia?
“Gli studi su questo tema sono pochi, considerato che il fenomeno risulta estremamente sottovalutato. Di conseguenza non è possibile fornire una stima corretta della prevalenza del disturbo sul territorio. Pensiamo però che il gioco d’azzardo patologico ha una percentuale di diffusione che oscilla tra 1-3% della popolazione. Possiamo ipotizzare che la percentuale sia simile anche per i dipendenti da lavoro, o che per lo meno si vada in quella direzione”.

Quali sono i sintomi che permettono di capire se si soffre di questo disturbo?
“Il lavoro diventa il cardine attorno al quale ruota tutta la vita di un individuo che finisce con il considerarlo come prioritario rispetto alla sua salute e alla sua famiglia. Il dipendente sente il bisogno impellente di lavorare perdendo di vista gli hobby e gli altri interessi arrivando a volte a mentire sul modo in cui passa la giornata. È un perfezionista alla stregua dell'anoressica o è caratterizzato da una notevole rigidità comportamentale. Infine, si instaura una e vera propria dipendenza da adrenalina: i valori sempre elevati di questo ormone servono a dare l'illusione di un'energia e di una forza infinite”.

Come questo si riversa sugli affetti?
“Molti workaholic creano dei rituali familiari per evitare di pensare che la loro vita sia solo costituita dal lavoro o, principalmente, per illudere coloro che li circondano che non sia così”.

È possibile individuare degli stadi nell'evoluzione di questo disturbo?
“Il pericolo inizia in modo innocuo. Lo stile di vita viene gestito in base ai ritmi del lavoro. Trascurando la famiglia o altri interessi nascono sensi di colpa che vengono vissuti, ma non ammessi. Nascono sentimenti come senso di vergogna o disprezzo per coloro che spendono del tempo in attività 'futili'. Si passa poi alla fase critica. La persona in questo stadio cerca delle scuse, per giustificare la sua mania di lavorare troppo. Tentativi di regolare la sua dipendenza creando degli orari falliscono e mettono in evidenza le sue debolezze. Si sente inutile se non è sotto pressione. Oltre a questo, aumenta un comportamento aggressivo e impaziente verso i colleghi di lavoro. In questo stadio pressione alta, ulcera e depressioni sono talmente gravi, da rendere necessario un intensivo trattamento medico”.

 

(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link:
http://d.repubblica.it/attualita/2015/04/02/news/dipendenza_lavoro_psicologia_consigli-2546403/

 

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)