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Workaholic: si può davvero parlare di dipendenza da lavoro?

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Si può davvero parlare di dipendenza da lavoro?

C’è chi lavora 15 ore al giorno e ne trae piacere: per alcuni esperti è una patologia, per altri no


Sul manuale diagnostico dei disturbi mentali (Dsm) non compare, ma alcuni psicologi lo considerano un disturbo. Si tratta della dipendenza da lavoro, una delle nuove dipendenze che come il gioco d'azzardo e internet non è causata da alcuna sostanza d'abuso. Workaholic, fu la parola coniata nel 1968 da Wayne Oates, uno psicologo americano, che nel saggio Confessions of a Workaholic, dichiarò lui stesso di aver sofferto di un disturbo di eccessiva dedizione al lavoro, simile a una dipendenza da sostanze d'abuso, come l'alcol. Da qui l'unione delle parole work e alcoholic. Una definizione medica precisa del disturbo non esiste, ma secondo alcuni esperti (qui e qui per citarne alcuni), si riferisce a tutte quelle persone troppo dedite al lavoro per cui lavorare diventa una vera e propria ossessione. Ossessione che li porta a trascurare famiglia, amici, e i proprio bisogni personali, e che ha ricadute sulla salute.

Nel 1992 viene pubblicato il primo lavoro in cui si cercò di dare una definizione a questo disturbo e in qualche maniera quantificarlo. Oggi poi, volendo valutare la propria dipendenza da lavoro, sono disponibili diversi test facilmente reperibili sul web (qui, qui e qui). Ma la linea di confine tra dedizione al lavoro e workaholic non è così facile da tracciare, tanto che viene spesso chiamata “dipendenza ben vestita” perché è difficile riconoscerla. Soprattutto in un momento storico come quello attuale in cui si è perennemente connessi – ed è facile portare il lavoro a casa – e il lavoro scarseggia. Così chi ce l'ha se lo tiene stretto anche a costo di lavorare più di quanto si dovrebbe. Ma come riconoscere un work-addicted? I più colpiti sembrano essere gli uomini e in particolare i liberi professionisti anche di una certa condizione sociale. Spesso si giustificano dietro frasi del tipo lo faccio per la mia famiglia o per assicurare un certo futuro ai miei figli ma in realtà dietro si nasconde un puro piacere. Ma siamo sicuri che provare piacere per qualcosa possa essere catalogato come “disturbo”?

Massimo Clerici, professore di psichiatria presso l’Università degli Studi di Milano spiega a Linkiesta che in realtà «ultimamente c’è una tendenza esagerata a identificare come disturbo molti comportamenti che alcune persone tendono a ripetere perché sostenuti da un rinforzo positivo favorevole (la tendenza a ripetere un comportamento che ci ha procurato piacere, per via di un meccanismo biochimico mediato da neurotrasmettitori cerebrali). Come il gioco d’azzardo, gli sport estremi, il lavoro, la dipendenza da sesso ecc., ma non è possibile classificare ognuno di questi comportamenti come una malattia in senso stretto. Lo stesso gioco d’azzardo patologico viene discusso dagli psichiatri. Nonostante sia una malattia abbastanza famosa (gambling) e abbia dei criteri diagnostici riconosciuti sul Dsm che la caratterizzano, di fatto molti ricercatori e clinici che si occupano di dipendenza negano che possano esistere singole malattie per tutti questi comportamenti. Quindi figurarsi per la dipendenza da lavoro. Si può però identificare un gruppo di comportamenti anche molto diversi l’uno dall’altro, che sono sostenuti dai meccanismi simili, cioè il rinforzo e la gratificazione di quel comportamento, qualsiasi esso sia. Mangiare nutella ogni giorno o giocare d’azzardo poco conta, quello che importa è il profilo di personalità, che accomuna tutte queste persone, che sono molto sensibile ai rinforzi e alle gratificazioni che vengono dall’esterno».


Clerici però continua a spiegare che nel manuale dei disturbi mentali rientra solo ciò che risponde a dei criteri clinici e che perciò genera sofferenza. «Un disturbo mentale può generare un disagio aspecifico, per esempio l’ansia che ci fa vivere male. Oppure può determinare disabilità, cioè danni gravi nel funzionamento cognitivo, molto spesso permanenti, come una grave malattia schizofrenica, che impedisce di vivere dignitosamente. Infine il massimo livello di gravità che un disturbo mentale può determinare, è il rischio per la vita: come una depressione che comporta un suicidio. Finché non è presente nessuno di questi tre elementi non c’è malattia. Il gioco d’azzardo che non diventa dannoso, il saltare col paracadute o dai ponti piuttosto che il lavoro eccessivo, se non rientrano nei tre casi precedenti – cioè non causano disagio, disabilità o rischio per la vita –  non possono essere etichettati come patologia. Sono un comportamento, potrà sembrare un comportamento strano, ma è strano anche che la gente si faccia tatuaggi piercing e così via. Tutto è strano al giorno d’oggi, bisogna stare attenti a non far diventare tutto una malattia».


(...omissis...)


copia integrale del testo si può trovare al seguente link: http://www.linkiesta.it/workaholic-dipendenza-lavoro/

 

(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)