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Workaholik, ovvero dipendenza da lavoro: analisi del fenomeno

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Siamo malati di lavoro?

Isabella Faggiano


Genova - Più lavora e più si sente insoddisfatto di quello che fa. Eppure non riesce a farne a meno, ne è assuefatto: e così si rovina la vita. È il workaholic, termine inglese che letteralmente significa "ubriaco di lavoro". È una vera e propria forma di dipendenza che, come tutte le patologie psicologiche, può essere individuata e combattuta.

La novità arriva dai ricercatori norvegesi dell'università di Bergen, che hanno elaborato un test utile come strumento diagnostico: si tratta di uno speciale questionario, basato su sette domande a risposta multipla, capace di scoprire e misurare la forma e il livello di questa dipendenza. Il metodo di valutazione, battezzato scala di Bergen, punta su 7 criteri specifici per il mondo del lavoro - tolleranza, visibilità, umore, ripiegamento su se stessi, conflitto, ricaduta e problemi -, ma che si trovano anche nella maggior parte delle altre dipendenze, dall'alcolismo fino alla droga.

Gli scienziati hanno studiato il comportamento di 12 mila lavoratori norvegesi di 25 diverse aziende, analizzando la comparsa e il livello di ogni criterio. I risultati ottenuti, pubblicati sullo Scandinavian Journal of Psychology , hanno permesso di determinare il grado di dipendenza - ne esistono tre: non dipendente, semidipendente, workaholic - distinguendo chiaramente tra persone psicologicamente sane, lavoratori motivati e malati di lavoro.

Tra i soggetti più a rischio - e in pericoloso aumento - ci sono coloro che utilizzano smartphone, pc portatili o tablet aziendali. «I benefits tecnologici» spiega Davide Algeri, psicologo e psicoterapeuta «hanno proprio lo scopo di tenere sempre legati al lavoro, con l'effetto di aumentare la dipendenza». Per questo, quando la giornata di lavorativa è davvero finita, a casa bisogna imparare a staccare la spina. «Per ottenere la "giusta distanza" tra la nostra vita privata e il lavoro» suggerisce lo psicologo «è utile limitarne l'uso, provando ad esempio a lasciare il telefonino a casa quando si è fuori dall'ufficio o a rimandare di 30 minuti la risposta ad una mail. In questo modo, infatti, è la persona che torna ad avere un controllo sull'oggetto e non viceversa».

Il workaholic, infatti, parte sempre da una condizione di "normale" interesse nei confronti del proprio lavoro, fino a giungere ad una vera e propria condizione patologica. Lo psicologo Cesare Guerreschi ha individuato un percorso a tre fasi che conduce verso l'assuefazione. «Proprio come nella dipendenza dall'alcol» spiega Guerreschi «possiamo individuare una fase iniziale nella quale l'individuo comincia a lavorare di nascosto, dedicandosi a questo anche nelle ore extra lavorative. In questo stadio non vi sono ancora visibili sintomi psichici o fisici, ma le relazioni iniziano a deteriorarsi e si possono evidenziare leggere depressioni, nervosismo, mal di testa e mal di stomaco. Segue poi una fase critica, dove la dipendenza si manifesta proprio come in un alcolista: la persona cerca scuse per lavorare anche nei giorni di riposo, non riesce a rispettare i limiti che si è autoimposta, diventa aggressiva con i colleghi. Tra i sintomi fisici vi è la pressione alta, disturbi cardiaci, e ulcera. Tra i sintomi psichici, la depressione. Nell'ultima fase, quella cronica» continua lo psicoterapeuta «il lavoro occupa tutte le ore del giorno e i momenti liberi, andando a sconvolgere inevitabilmente, e completamente, la vita privata».

La scala di Bergen permette proprio di individuare la fase in cui si trova un lavoratore: ognuna delle 7 domande prevede 5 possibilità di risposta: mai, raramente, qualche volta, spesso, sempre. Se le annotazioni spesso e sempre appaiono almeno 5 volte, c'è un disturbo che va affrontato.

«Questo strumento può aiutare chi sta esagerando con il lavoro e facilitare eventuali terapie di un disturbo che non va sottovalutato. Ricerche precedenti» conclude Cècilie Schou Andreassen dell'università di Bergen «hanno già dimostrato che il superlavoro provoca insonnia, stanchezza eccessiva, stress permanente e induce a conflitti in famiglia». Ne vale la pena?


(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)