Droga e tossicodipendenza: riconoscere il problema medico, prima che sociale
Droga e tossicodipendenza: riconoscere il problema medico, prima che sociale
Difficile non trovare riferimenti alla droga nei media. Difficile anche non trovare assurdità: se c’è overdose si cerca chi ha venduto “l’ultima dose”, o la droga avvelenata; se una persona ricade, ci si chiede che cosa non avrà funzionato della disintossicazione. Se un ragazzo “cade” nel tunnel, ci chiediamo dove l’educazione ha sbagliato, per poi discutere quanta colpa abbiano anche le canzoni che ammiccano alle droghe. Anche una testata come il Corriere della Sera oggi pubblica un articolo per fare il punto sul problema, che sarebbe un bene. Si rimane stupiti di una cosa, però: se si invocano maggiore aiuto e più risposte, si dovrebbe esser certi di conoscere le risposte che già abbiamo, altrimenti rimaniamo sempre allo stesso punto: prendere a calci o a carezze una malattia sperando che guarisca.
Cause o conseguenze?
Se il drogarsi è un fenomeno sociale e culturale, ciò non toglie che sia prepotentemente, e preminentemente sanitario nel momento in cui si impone all’attenzione della società. In questo stadio i fattori sociali e culturali che possono aver sospinto la persona verso le droghe sono spesso esauriti, ed a prender piede invece sono i meccanismi tra persona e droga. Quando poi c’è la tossicodipendenza, anche i meccanismi tra persona e droga possono non pesare più granché, perché il problema a quel punto è nel cervello che autonomamente (senza la droga, prima della droga) riproduce un comportamento, tra periodi di apparente calma e altri di ripresa. E’ importantissimo capire che in un generico “giovane che si droga” possono giocare fattori sociali e culturali, con il risultato di far entrare, in quel momento e in quelle circostanze, la droga in un cervello, magari alterandolo anche pesantemente. Diversissima è la condizione di un tossicodipendente, il quale ha una propria condizione cerebrale, che lo induce a impegnarsi e rovinarsi per far entrare nel cervello una droga, indipendentemente dagli effetti che poi possono esserci, di regola tossici. Chi si droga liberamente, sensibile a fattori sociali e culturali, può intossicarsi e anche morire a causa dell’influsso di questi fattori. Chi è tossicodipendenze, si intossica e può morire a causa della propria tossicodipendenza, ancor prima che per l’effetto della droga, perché è la tossicodipendenza che determina il rischio e le modalità, fuori da ciò che per un drogato libero sarebbe desiderabile e piacevole. Quindi, quando si deve risolvere una tossicodipendenza, curare le cause (o inventarsele per poi inventarsi di curarle) è decisamente poco utile, perché è “causa di sé”, e quindi ciò che va curato è quel nel cervello è cambiato, senza riuscire più a tornare a posto.
Disintossicarsi in comunità?
La “comunità” è un feticcio con etichetta “terapeutica” che si vende da solo, al di là dello specifico legame scientifico tra ciò che la struttura offre, e il tipo di malati a cui si rivolge. Spesso neanche si parla di malati, e viene da pensare che alla fine la maggiore utilità la abbia chi non è preda di alcuna malattia, ma di semplice disagio sociale. Ci sono comunità basate su ideologie, altre su principi educativi, altri su accoglienza e assistenza. In termini di risultati, è quasi sempre un principio auto-referenziale a confondere il tutto: l’intervento è buono se il ciclo di permanenza è compiuto senza ricadute, cosicché chi ricade dopo il ritorno nell’ambiente naturale è un recidivo “guariti”, alcuni perfino morti “guariti”. Se poi uno scappa, si può scegliere tra due equivoci: “dovevano in qualche modo contenerlo”, e dall’altra parte “ha ceduto”. Nessuno coglie l’ovvietà che spesso questi luoghi sono un collocamento che intervalla le ricadute.
Prima di andare in comunità ci si disintossica. Come se il problema fosse che c’è la droga in corpo, e non che c’è la dipendenza in corpo, dipendenza che ci sarà ugualmente a disintossicazione completata, solo che non farà rumore. A pulizia ultimata, si farnetica su un fattore X che dovrebbe impedire la ricaduta: rientrare a contatto con i soliti ambienti, riprodurre i soliti meccanismi mentali etc. Insomma, la dipendenza sarebbe sporcizia che viene da fuori, e non un richiamo che viene da dentro. Se si tenessero ferme tutte le presunte variabili che si associano ad un ricaduta, si dovrebbe immaginare un tossicodipendente che non ricade più, in quanto in stato vegetativo. La verità è che per queste persone la vita stessa è una condizione a rischio, perché la malattia si riproduce da sola, a dispetto di tutto, se non è curata.
Quando il tossicodipendente si riavvicina agli ambienti, scappa di comunità o di casa e finisce poi dentro luride case a drogarsi o prostituirsi, non è ricaduto dopo la dose, ma prima. E poiché niente era stato fatto per cambiare questo destino, scritto nella diagnosi, perché doveva accadere altro?
L’aiuto alle famiglie
La famiglia va sicuramente aiutata, ma anche educata a non scambiare la dipendenza con un’abitudine, uno stile di vita o un atteggiamento antisociale. C’è da sapere che è una situazione di alterazione cerebrale, che somiglia ad altri disturbi mentali per il suo automatismo, e per il fatto che chi ne soffre tende a perderne consapevolezza. La soluzione quindi non tende ad essere quella che dice il paziente, non quella che la cultura suggerisce, non quella che l’ideologia vedrebbe sensata, e neanche quella che il carisma di un santone fa sembrare vera. Nessuno ha mai stabilito che la cura di una dipendenza sia imperniata su principi educativi, su riabilitazione, su dialogo e comprensione: la cura “chimica”, studiata e impostata fin dai tardi anni ’60, è niente di così diverso da una cura psichiatrica, che punta selettivamente a spegnere la voglia patologica della droga, attraverso l’azione in determinate zone del cervello, le stesse che hanno prima subito l’influenza della droga. La cura non è la riabilitazione, la cura ha come fine la riabilitazione, permette la riabilitazione. Curare è “alzati e cammina”, non “cammina e alzati”: se si pretende che la persona guarisca sforzandosi di non avere sintomi, i più gravi strisceranno, quelli meno gravi faranno dieci passi e poi, tra lo stupore generale, crolleranno a terra.
Il ritorno dell’eroina
Per quanto riguarda la dipendenza, quella da oppiacei (ormai non solo eroina) è quella che fa più paura, ma è anche quella che è curabile in maniera più certa e scientificamente fondata. A parte il fatto che il ritorno non è dell’eroina, ma se mai una diversa moda d’uso (fumata), il vero “ritorno” è quello dell’equivoco sulle cure. Finché si continuerà a pensare che le cure mediche (metadoniche) si danno ai agli incalliti irrecuperabili, e che invece sui giovani bisogna investire mille risorse, senza ridurre il tutto ad una situazione medica, si continuerà a fare il gioco della malattia. Un gioco che consiste nell’aggravamento, nella distruzione delle vite e nello scoraggiamento generale. Finché si penserà che il metadone sostituisce una dipendenza con un’altra, e che al limite è solo un aiuto per tossicodipendenti incalliti e poco volonterosi, meglio se preso poco e a dosi più basse possibile, per non cronicizzare…beh, si sta facendo sempre il gioco della malattia. Bisognerebbe invece ragionare come in altre branche della medicina: le cure che funzionano anche in casi estremi, spesso sono brillanti e risolutive nei casi più lievi, vanno iniziate il prima possibile e proseguite per tutto il tempo necessario. Il vero allarme attuale, rispetto alla dipendenza di eroina, è questo: le misure mediche sono mortificate, equiparate alle altre, considerate non centrali: in questo modo le persone si curano magari presto, ma poi sospendono le cure e ricadono, e negli anni quindi perdono la principale carta che uno ha a disposizione: una malattia ancora non grave.
(...omissis...)
copia integrale del testo si può trovare al seguente link:
(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.cufrad.it)