F.O.M.O. (fear of missing out): l'ansia da prestazione digitale
Estate 2016, corre sui social la paura di perdersi qualcosa
Il Fomo corre sul filo. O meglio, sui bytes dei social network. Il termine è l’acronimo di «fear of missing out». La paura di perdersi qualcosa. O qualcuno. Il posto giusto, il momento migliore, il bell’incontro, la comitiva più cool. Insomma: l’ansia di essere ubiqui. Risale, nel vocabolario di Internet, almeno al 2011, coniato da Caterina Fake, scrittrice e imprenditrice digitale (è cofondatrice di Flickr, un sito per la condivisione di fotografie). «Stavo scorrendo dei feeds su Twitter e, a distanza, ho colto una sensazione distinta di ansia sociale e Fomo - ha scritto -. E’ ciò che succede in un tipico sabato sera, quando si deve prendere la decisione di cosa fare».
La sigla si è moltiplicata negli hashtag delle piattaforme social-digitali. Fino a tracimare definitivamente, quest’anno, dall’universo virtuale al mondo reale. Il Fomo è approdato in Borsa, per definire il timore dei traders di non avere abbastanza azioni in portafoglio quando il mercato è in rialzo. Ha dato il nome a una serie di festival musicali, dalla California all’Australia, e a due film, una commedia e un horror. È scivolato con languore dal lettino dello psicanalista ai lettini sotto l’ombrellone. Con una pletora di corollari: dal folo (fear of living offline, la paura di vivere non connesso) al gomo (going out more often, l’impulso a uscire di più).
«E’ sempre più difficile tracciare un confine tra il mondo reale e quello virtuale con l’espansione dei media sociali - spiega Antonella Mascio, docente di New Media all’Università di Bologna -. C’è chi non si rende più conto se è online o offline. Magari ha il telefonino scarico, ma il pensiero è al profilo Facebook. Il Fomo fa parte di una più generale ansia da prestazione digitale, che colpisce in particolare gli adolescenti. L’ha illustrata bene l’autrice americana Sherry Turkle nel suo libro Insieme ma soli (Codice)». Se da un lato, i nuovi strumenti tecnologici allargano i contatti, azzerando - in apparenza - i famosi sei gradi di separazione, le differenze restano. La condivisione ha come contraltare la competizione. E strizza l’occhio all’invidia, eterno motore sociale. Come spiegare altrimenti hashtag popolarissimi inviati sotto foto da ristoranti più o meno chic, quali: «You can’t sit with us» (non puoi sedere con noi). O ancora: «My friends are better than yours» (i miei amici sono migliori dei tuoi).
(...omissis...)
copia integrale del testo si può trovare al seguente link:
(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.alcolnews.it)