Smartphone e ipad, «cocaina digitale»: sfida educativa dei nostri tempi
Smartphone e ipad, «cocaina digitale»: la sfida educativa arriva da Davos
di Giuliana Ferraino
La fatica di essere genitori in un mondo che cambia continuamente e sfida noi e i nostri figli con mille sollecitazioni è diventata un tema talmente importante che quest’anno al World Economic Forum di Davos all’argomento sono stati dedicati diversi panel e dibattiti. Uno dei punti centrali è la dipendenza dei ragazzi da smartphone e tablet, un problema che conosco bene dovendo combattere una battaglia quotidiana con mio figlio Alessandro di 11 anni e, in misura minore, con mia figlia Chiara di 9 anni. Quando decido che un’ora di iPad giocando a Fortnite con i compagni di classe è abbastanza e sequestro l’iPad, spesso l’unico modo per farmi obbedire, Alessandro protesta sostenendo che i suoi amici possono giocare per ore, diventa aggressivo e maleducato, mettendo a dura prova ogni giorno che passa la mia resistenza di madre. La sfida non è facile.
“Cocaina digitale”. Così definisce i videogiochi Belinda Parmar, 44 anni, ex evangelista tecnologica inglese pentita che 9 anni fa aveva fondato la startup Lady Geek. Oggi Parmar guida The Empaty business, per cambiare la cultura aziendale, ed è così preoccupata dai danni della dipendenza da smartphone e tablet sulla salute mentale dei ragazzi, da aver lanciato una campagna di allarme in Gran Bretagna, che la settimana scorsa è arrivata fino al Wef. «È scientificamente provato che i videogiochi attivano la parte frontale sinistra del nostro cervello stimolando la dopamina, un effetto osservato anche in chi assume droga», spiega. Un videogame come Fortnite prende in ostaggio la mente dei ragazzi, dà loro un senso di onnipotenza, perché credono di poter fare qualsiasi cosa, senza pagarne le conseguenze. «Se lancio un insulto online, non vedo il dolore sul volto della persona offesa. Se molesto sul web, non vengo punito. Se uccido qualcuno in un video gioco, non provo rimorso, anzi è eccitante, più uccido, più sono bravo».
E le società di tecnologia ne sono consapevoli: «Creano programmi che non insegnano l’empatia. Il loro unico obiettivo è renderci dipendenti». Quando hanno chiesto al Ceo di Netflix, Reed Hastings, chi era il suo competitor più grande, ha risposto “il sonno”, ricorda Parmar. Non si tratta di demonizzare la tecnologia, che ha portato moltissimi benefici, ampliando in modo esponenziale le nostre possibilità. Ma bisogna essere consapevoli dei pericoli a cui sono esposti soprattutto bambini e adolescenti, dal suo lato oscuro. E noi genitori dovremmo dare l’esempio. Invece le statistiche dicono che un adulto controlla lo smartphone 100 volte al giorno in media, i teenager 150 volte. Ma se il cervello di un adulto è già formato, quello di un ragazzo si completa solo a 23 anni».
Non sappiamo ancora quali saranno i danni, ma gli studi indicano che in un mondo iper connesso 4 giovani su 10 sono soli e la solitudine sta diventando un’epidemia. Parmer conosce da vicino il problema: suo nipote di 14 anni è stato il primo ragazzo a cui è stata diagnosticata la dipendenza da videogame dal servizio sanitario inglese, ma anche con suo figlio Jedd di 12 anni è una battaglia infinita. «Come faccio a competere con un mostro di un videogioco? Per mio figlio sono noiosa». Parmer è arrivata a chiudere sotto chiave nella cassaforte della sua camera da letto tutti i device elettronici della famiglia, incluso il suo smartphone, che ha scoperto di controllare tra le 60-70 volte al giorno, quando ha deciso di monitorare i suoi comportamenti.
«Non si tratta di bandire la tecnologia, i giochi educativi hanno effetti positivi sui ragazzi. Ma non sempre ciò che è definito educativo lo è davvero», sostiene.
La domanda che angoscia tanti genitori è: che cosa si può fare? «Bisogna cominciare a discutere sui rischi della dipendenza tecnologica, con un grande dibattito pubblico», suggerisce Parmar. Invocando «linee guida generali, come si fa sull’alimentazione, per validare l’azione dei genitori».
Ma anche costringere le società hi-tech ad assumersi parte della responsabilità. Ad esempio, si potrebbe introdurre un’etichetta che indichi il “grado di dipendenza” che ogni social media o videogioco provoca sui ragazzi, come si fa per le calorie dei prodotti alimenti. E chiedere di investire l’1% del loro budget in ricerca e sviluppo, per portare avanti studi sugli effetti che un’esposizione eccessiva di bambini e adolescenti alla tecnologia ha sulla loro salute mentale. Un’altra idea: «Abbiamo bisogno di luoghi specializzati per aiutare i giovani affetti dalla dipendenza dai device elettronici, come esistono cliniche per curare la dipendenza dall’alcol o dalla droga».
(...omissis...)
copia integrale del testo si può trovare al seguente link: https://27esimaora.corriere.it/19_gennaio_28/smartphone-ipad-cocaina-digitale-sfida-educativa-arriva-davos-598a903e-22ef-11e9-9543-1916afeb08d9.shtml
(Articolo pubblicato dal CUFRAD sul sito www.cufrad.it)